MAMMA RAI SFORNA FIGLI CHE ALLATTIAMO NOI: 13MILA DIPENDENTI, DI CUI 1.700 GIORNALISTI, 40MILA COLLABORATORI, 21 SEDI REGIONALI, 14 UFFICI DI CORRISPONDENZA, 13 CANALI TV, 5 RADIOFONICI - CACHET D’ORO PER I VOLTI DI PUNTA: SU TUTTI, FABIO FAZIO (2 MLN € L’ANNO) - LA SIPRA RIESCE A FARE FLOP PERSINO CON LO SHOW DI FIORELLO: COSTATO 12 MLN € HA INCASSATO CON GLI SPOT POCO PIÙ DI 8 MLN - PAGA SEMPRE PANTALONE: CANONE PIÙ CARO DELL’1,4% TOCCA QUOTA 112 €…

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Gianni D'Avello per "Pocket"

LORENZA LEILORENZA LEI

Servizio pubblico, la prima azienda culturale del Paese, tv di Stato. E ancora "Mamma Rai", l'antenna che unisce l'Italia, l'intrattenimento a casa e via di questo passo. A voler essere sobri, quelle appena elencate, sono solo alcune delle definizioni usate per l'azienda di viale Mazzini, storica sede dell'emittente televisiva, da sempre nel cuore della politica e negli occhi degli italiani. Un binomio inscindibile per alcuni aspetti, ma dagli effetti devastanti. Perché la politica ha usato le antenne della tv pubblica per riempire prima la pancia degli italiani e poi la testa, senza mai pensare al cuore.

E per cuore s'intende qualità dei programmi ovvero servizio pubblico. Quello è solo un accessorio. Uno stato dell'arte che si autoalimenta da quando la Rai è nata. Senza voler andare troppo indietro con la memoria, anche se gli archivi sono pieni di materiale che merita di essere studiato e approfondito, nell'ottobre del 2000 Enzo Biagi, uno che l'azienda di viale Mazzini la conosceva bene, andava sostenendo che "la Rai è lo specchio del Paese, deformato dalla tv". Bibbia allora e Vangelo oggi.

Così come la regola usata per aprire e chiudere i rubinetti delle assunzioni: "Alla Rai hanno assunto sette giornalisti: tre democristiani, due socialisti, un comunista e uno bravo". Mutando i fattori (Pdl, Pd, Lega e Udc), il risultato non cambia. Oltre 13mila dipendenti in organico (meno della metà a Mediaset, quasi 4mila a Sky), di cui 1.700 giornalisti ripartiti in ben 14 strutture, fra redazioni e direzioni, 40mila collaboratori (stando all'ultimo dato ufficiale), 21 sedi regionali, 14 uffici di corrispondenza, 13 canali televisivi, cinque radiofonici.

PAOLO GARIMBERTIPAOLO GARIMBERTI

E poi ci sono le controllate. Rai Way si occupa del segnale, gestendo 2.314 stazioni che ripetono il segnale, otto impianti di diffusione e trasmissione, una stazione ripetitrice. La Sipra, invece, si occupa della pubblicità e dispone di sette sedi. Più che un'azienda, un pachiderma in un negozio di cristalli, la cui pesantezza inizia ad essere devastante. Certo, quella raccontata da Biagi nel 2000 era una battuta che rispecchiava una certa realtà, non difforme da quella di oggi però, visto che i colleghi capaci erano, e sono, più o meno nella stessa proporzione di quelli che si trovano nella carta stampata. Non solo.

Ettore Bernabei, uno che la Rai ha contributo a farla diventare quel che è oggi, a proposito della "lottizzazione" sosteneva che "in Rai i colori devono esserci tutti". E chi è che garantisce l'Arcobaleno della Rai? I telegiornali e le varie testate giornalistiche, ovviamente. È lì che la lottizzazione tocca il suo acme. Al Tg1, per esempio, lavorano 141 giornalisti (al Tg5 sono poco più della metà), guidati da un direttore (Alberto Maccari) e quattro vicedirettori (Fabrizio Ferragni, Claudio Fico, Susanna Petruni e Gennaro Sangiuliano), equamente ripartiti fra le varie forze politiche.

E, come se non bastasse, ci sono anche tre collaboratori esterni, con contratti da 70mila euro all'anno. Lo stesso avviene al Tg2, che dispone di 123 redattori, e al Tg3 che ha un organico di 98 giornalisti. La truppa più consistente, e diversamente non potrebbe essere, è in forza alla Tgr, diretta da Alessandro Casarin, che conta su 657 redattori. Ecco, con questo esercito (sempre più di Pulcinella) la Rai dovrebbe, e non lo fa, scalare le montagne e mangiarsi la concorrenza in un sol boccone. Invece strutture leggere come quella di Mediaset o Sky Tg24, stanno facendo a pezzi l'informazione Rai.

biagi enzobiagi enzo

Il canale a pagamento del magnate Rupert Murdoch, avendo investito sui furgoncini mobili dotati di parabola per il collegamento satellitare, sono in grado di arrivare sul luogo dell'evento con tempi strettissimi. La Rai, invece, ragiona e si muove come un elefante. Camion regia, troupe "pesante" con inviati da Roma o corrispondenti dalle sedi regionali. Troppo per essere seri. E così, per invertire la rotta, la Rai ha deciso di affidarsi sempre più agli esterni, con troupe in appalto "affittate" sul posto.

Un altro spreco nel mare magnum dei costi inutili. L'azienda di viale Mazzini, infatti, dispone di un canale di sola informazione, Rai News, con una dotazione organica di 95 giornalisti. Ma l'assenza d'investimenti e la scarsa dotazione tecnica, nel senso di operatori e telecamere, hanno fatto diventare la rete diretta da Corradino Mineo una sorta di arredo, mobilia da tenere nel sottoscala.

Mediaset, avendo capito da tempo che il mercato offre un altro tipo di domanda, ha partorito TgCom 24. Struttura agile, capacità di essere sul posto con le cosiddette "fly", un giornalista e un operatore, offrendo al telespettatore la notizia in tempo reale. E anche i costi dei dipendenti sono pesanti. Come sempre il costo medio del dipendente della tv di Stato batte tutti (89mila euro all'anno nel 2010), ma non si discosta di molto rispetto agli 86mila del gruppo Mediaset.

Rupert MurdochRupert Murdoch

I dipendenti Sky (53mila euro l'anno) guadagnano invece molto meno rispetto alle due rivali, un fattore che a detta degli esperti, probabilmente, si giustifica alla luce del fatto che l'età e l'anzianità media rendono il costo del lavoro più leggero per Sky che a fine 2010 aveva superato il fatturato Rai raggiungendo quota 2,97 miliardi. Tradotto in pratica significa che il direttore di testata guadagna fra i 150 e i 350mila euro all'anno.

Solo Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, aveva sforato il budget, ottenendo un compenso di 550mila euro all'anno. Che continua a prendere. Certo, niente a che vedere con i 450mila euro all'anno di Giovanni Floris, conduttore di Ballarò, in aspettativa aperta dalla Rai, nel senso che attualmente figura come un libero professionista, ma se dovesse chiudere il programma verrebbe automaticamente riassunto dalla Rai. Dire strano è dir poco.

O con il milione e rotti che prende Bruno Vespa, pensionato della tv pubblica, ma collaboratore di lusso, essendo il conduttore di Porta a Porta. Altra bella storia per un'azienda eternamente in rosso, quella dell'ex direttore generale Claudio Cappon al quale viene riconosciuto un stipendio annuo di 600mila euro, mentre l'attuale dg, Lorenza Lei, è arrivata a toccare i 500mila euro dopo un estenuante braccio di ferro con il Consiglio di Amministrazione. Ma ad essere in sofferenza non è solo l'informazione, anche l'intrattenimento targato Rai sta battendo in testa, nonostante i costi restino alle stelle e il debito della tv pubblica, negli ultimi anni, sia clamorosamente lievitato. Solo i compensi delle star non sentono la crisi.

Il buon Fabio Fazio si porta a casa 2 milioni di euro all'anno, parlando di operai in crisi e di governi che affamano gli italiani. Facile con la pancia piena parlare agli affamati. Giuliano Ferrara, per dire, per tre anni di programmazione porta a casa un compenso totale di un milione e cinquecentomila euro lordi. E l'Elefantino vale meno di Fagiolo Fazio? Questa è la Rai, bellezza.

viale mazziniviale mazzini

Del resto, proprio di recente, nel calderone delle polemiche è finito lo show del sabato sera "Ballando con le stelle" condotto da Milly Carlucci, che guadagna un milione e 500mila euro all'anno. I cachet riconosciuti alle star hanno fatto scalpore (circa 600mila euro, poi limitati verso il basso, sia a Bobo Vieri che a Gianni Rivera) non solo per l'importo, ma anche per il tipo di programma, il cui costo a puntata si aggira sul milione di euro, con un ascolto medio attorno al 20% di share. Più che un flop, un vero e proprio disastro, visto che a battere la Rai è il programma di Canale 5 "Italia's got Talent", attestato attorno al 30% di share.

Ecco, il dramma del sabato sera della Rai è diventato il paradigma dell'intero ragionamento: servono ancora questi fumettoni televisivi? Oppure la domanda è profondamente cambiata? Piccolo passo indietro. Vi ricordate di "Ci tocca anche Sgarbi" (anche in questo caso il costo era di un milione a puntata), uno dei più clamorosi insuccessi di tutti i tempi? Roba da fare invidia alla Barbara D'Urso. Eppure la Rai ci aveva provato, ben sapendo che i monologhi-deliri di Sgarbi non tirano più. Una regola dalla quale, ma solo in parte, si è salvato Fiorello.

La trasmissione di punta dell'intera programmazione del 2011, "Ilpiùgrandespettacolodopoilweekend", è riuscito a chiudere in perdita. Nel dettaglio, la trasmissione di Fiorello, che ha raggiunto picchi vertiginosi di share (anche il 50%), a fronte dei costi di realizzazione (12 milioni di euro) avrebbe incassato dagli intervalli pubblicitari poco più di 8 milioni di euro. Un passivo, semplice il calcolo, pari a 4 milioni. La Sipra - la concessionaria pubblicitaria di viale Mazzini - avrebbe "sottovalutato" il fenomeno Fiorello, vendendo gli spazi per gli spot ad un costo minore rispetto a quello che sarebbe poi stato il valore reale della trasmissione determinato dai super ascolti.

La "prodezza", in precedenza, era già stata realizzata con "Vieni via con me", lo show della premiata ditta Fabio Fazio-Roberto Saviano. A fronte di questi marchiani errori di valutazione, la Sipra ha deciso di usare una diversa strategia per Sanremo, partendo dal dato di fatto che Celentano, da solo, dovrebbe attirare gli investitori, pronti a pagare gli spot a prezzo pieno. Insomma, alla luce di queste considerazioni tutto torna, anche il fatto che viale Mazzini, tra il 2006 e il 2010, ha perso quasi 260 milioni malgrado i forti tagli ai costi (per inciso il budget Rai in cinque anni è sceso da 205 a 167 milioni).

ETTORE BERNABEIETTORE BERNABEI

Per quel che concerne il 2011, assicura il dg Lorenza Lei, il bilancio chiuderà in pareggio grazie a una nuova sforbiciata da 168 milioni che comprende la chiusura di diverse sedi estere e colpi di forbice alle spese per i diritti sportivi (rischia anche una trasmissione storica come 90° minuto).

La Rai, come detto, ha chiuso gli ultimi cinque anni con un bilancio in rosso: nel 2010 il passivo record da 98 milioni. I tagli ai costi, insomma, non sono bastati al carrozzone pubblico che ci impone anche il canone a compensare la frenata nella raccolta pubblicitaria. Viale Mazzini, questa la sostanza, inizia a cedere anche sul fronte patrimoniale: fino a pochi anni fa la televisione pubblica non aveva alcun debito, mentre oggi tra clienti e dipendenti ha debiti per una cifra che si avvicina agli 800 milioni, e per garantire l'operatività del business è stata costretta a chiedere alle banche un prestito di 200 milioni di euro.

Ed è in questo contesto che è arrivato anche il nuovo balzello sul canone, aumentato dell'1,4% a 112 euro: un ritocco che assicurerà alle poco virtuose casse della tv di Stato maggiori entrate per 20 milioni di euro. Volendo completare il quadro le cose non vanno meglio nemmeno sul fronte pubblicitario, al di là dei problemi legati al tetto previsto dalla legge. Stando al sondaggio tra gli utenti realizzato da Upa, Utenti Pubblicità Associati, che raccoglie raccomandazioni e auspici sul futuro della tv pubblica, la Rai dovrebbe mutare pelle e cambiare atteggiamento verso il mercato.

Le circa 300 interviste presentano uno scenario critico dove i giudizi negativi prevalgono sui positivi: per un quinto del campione la Rai è senza speranza di salvezza, per poco più di un quarto è salvabile con molte difficoltà ed esito incerto, per più di un terzo persistono i suoi punti di forza e le potenzialità, per un sesto di aficionados rimane e rimarrà "Mamma Rai". Troppa politica nella sua gestione, lottizzazione, mancanza di progettualità, incapacità di investire sui talenti, ingovernabilità amministrativa, downgrading dello stile e della proposta, lentezza e caduta della reputazione anche all'estero hanno portato a conti pessimi.

Il modello a cui pensa Upa è quello di stampo anglosassone, Bbc in primis. Facile a dirsi, difficile da realizzare. Nel 2000 le entrate pubblicitarie della tv pubblica erano pari al 60% di quelle di Mediaset, oggi siamo scesi al 40% con 250 milioni di spot andati in fumo dal 2006 al 2010. Altro dato preoccupante è quello sull'evasione del canone: le ultime stime dicono che quasi un terzo degli italiani non lo paga.

A fronte di questi dati in decrescita costante il miracoloso pareggio di bilancio del 2011 potrebbe non evitare ulteriori tagli nel corso del 2012. Forse è davvero l'ora di mandare in onda il programma "più forbici per tutti". Per ora, ad essere tagliato, è stato soltanto Michele Santoro che guadagnava 650mila euro all'anno, ma con il suo Annozero faceva fare buoni affari all'azienda. Forse, in questo, hanno ragione Morandi e Celentano quando dal palco di Sanremo hanno parlato di "censura" e di grave perdita per la Rai. Dagli torto.

 

 

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