UN ROMANZO DOTTO - ESTRATTO IN ANTEPRIMA DEL LIBRO DI GIANCARLO DOTTO "SONO APPARSO ALLA MIA DONNA", CHE NARRA LA VITA DI PRESUNTO, DELLA DONNA CHE AMA PERDUTAMENTE, E DI SUO PADRE, UOMO TURPE E DISSOLUTO, CHE DEVE UCCIDERE - VIDEO

Presunto ama perdutamente Maria. Maria è la sua vertigine. Maria come Salomè. La donna angelo e demone che ti conduce alla perdizione. Maria gli chiede la testa di Vanni, suo padre. Ex showman televisivo, uomo turpe e dissoluto, che ha abusato di donne e bambine, inclusa Maria. Ma Presunto, che s'immagina assassino, si scopre asino...

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VIDEO - IL BOOK TRAILER DEL LIBRO DI GIANCARLO DOTTO "SONO APPARSO ALLA MIA DONNA" (PIRONTI EDITORE)

 

 

 

GIANCARLO DOTTO, UN ROMANZO CHE È UN DELITTO IMPERFETTO

 

 

giancarlo dotto sono apparso alla mia donna giancarlo dotto sono apparso alla mia donna

Presunto è il protagonista del romanzo, ma presunti siamo tutti noi, a cominciare dall’autore. Appesi alla maniglia di un delirio certificato che chiamiamo identità.

Presunto ama perdutamente Maria. Maria è la sua vertigine. Maria come Salomè. La donna angelo e demone che ti conduce alla perdizione.

 

Maria chiede a Presunto la testa di Vanni. Vanni è il padre di Presunto. Ex showman televisivo, uomo turpe e dissoluto, che ha abusato di donne e bambine, inclusa Maria. “Non tornare più da me, se prima non avrai fatto quello che devi. Uccidilo!”. Maria ha due profili, quello destro della santa e quello sinistro della puttana. Presunto è devoto al primo, ma è attratto dal secondo.

 

Sospeso tra due figure allucinatorie, la donna amata e il padre odiato, Presunto, scortato dai suoi improbabili complici, cialtroni reclutati lungo la strada, in viaggio tra il Brasile e l’Italia, persegue il crimine ma trova solo la farsa e la derisione, s’immagina assassino e si scopre asino.

 

Come sempre, nell’impossibilità del tragico, lo scarto eclatante tra quello che cerchi e quello che trovi, quanto ti proponi e quanto s’impone, si apre l’unica, possibile, grandiosa pagina lirica dell’esistenza, inesorabilmente scandita dai vuoti e dai pieni del corpo che ti porti appresso.

 

“Sono apparso alla mia donna”, per nulla velato omaggio dell’autore all’amico Carmelo Bene, è un noir che non ce la fa proprio a tingersi di nero. Un non luogo a procedere, tra inciampi e lapsus. Spiritoso e terribile. Un delitto imperfetto. Come la vita.

giancarlo dotto giancarlo dotto

 

 

CAPITOLO 18. INCUBI E LATRINE AD ALTA QUOTA.

Estratto dal libro di Giancarlo Dotto, "Sono apparso alla mia donna", Pironti editore

 

 

(Presunto e il padre in gita sul Grappa cantando i cori degli alpini/Ci vorrebbe così poco a scaraventarlo giù nell’abisso/Presunto scopre che esiste una tomba con il suo nome/I padri dormono quando i figli imprecano)

 

 

Mio padre riemerse dal bagno rasato e di ottimo umore. La dentiera lo ringiovaniva e la prospettiva della gita sulla cima del Monte Grappa lo eccitava. Il suo amico sindaco, ex alpino, avrebbe inaugurato la più grande latrina tecnologica d’alta quota ai lati del Sacrario, il cimitero delle ossa, tutto quanto restava del macello da trincea.

Da quando era tornato alla base, mio padre, vecchio bersagliere in pensione, aveva stretto un sodalizio soprattutto alcolico con gli amici alpini che da quelle parti erano la stragrande maggioranza. Salivano lassù, ai duemila metri, e si sfondavano di Merlot alla faccia dei martiri in buona parte ignoti. Diecimila austriaci e dodicimila italiani che, da teschi, avevano smesso di scannarsi in quel buco gelido che li conteneva.

 

Erano passati più di quarant’anni. Me la ricordavo bene l’unica volta che eravamo saliti insieme sul Grappa, lui, un suo amico ed io, seduto dietro nella Millecento Fiat. Il cuore in gola, la felicità che non riuscivo a mostrare, le parole che non sono riuscito a dire, là dietro, rannicchiato in quel sedile troppo grande, che sbirciavo lo specchietto retrovisore a cercare lo sguardo dell’orco, mentre una folla di vocali e consolanti si spingevano e facevano a pugni, intrappolate nella mia trachea. Me le ricordavo bene le foto, lassù in cima, lui in posa che fa il cazzone con il suo amico, che mostrano il torace, io un soldo di cacio con un cappello piumato in testa e la foto di Fred Buscaglione che mi cantava in tasca di Maria, ancora prima d’essere Maria, “Bella, criminalmente bella”.

 

….Mi apparve Maria. Bella come il sole. Che mi ammoniva da una specie di lucernario e l’aureola che la illuminava: “Ricorda il tuo giuramento”. Mio padre non aveva ancora bevuto, ma già puzzava di Merlot. Si ficcò sul cranio un cappello da bersagliere e un altro lo calcò sul mio. Mi lasciai fare, sgranocchiando in silenzio un biscotto che sapeva di muffa. Che avesse subodorato tutto, il demonio?

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Lui al volante della sua nuova Alfa turbo amaranto, io al suo fianco, scalammo i diciotto chilometri del Grappa, intonando a pieno mantice i più celebri cori degli alpini.  Sempre più su, lungo la cima avvolta nella nebbia, un tornante dopo l’altro, sfiorando i cicloturisti smaniosi d’infartare con la maglia di Moser addosso, le corriere cariche di giapponesi e bellunesi in gita, i cimiteri sparsi, le croci, i santuari, la funivia su e giù e i paesaggi che si confondevano nell’euforia d’alta quota, tra guerra e pace.

 

Lo stesso fango, la stessa trincea, le marce al buio e al gelo degli alpini, le donne che abortivano in sella ai somari, da un tornante all’altro, le foto di gruppo, i picnic sull’erba e gli atti eroici, le cartoline da spedire con un mittente più morto che vivo, i muli e gli obici, i pezzi di artiglieria, le scarpe bucate sui sassi taglienti, i piedi che urlavano, le baionette puntate, le fosse piene di terrore, soldati che lasciano la vanga per andare al macello e si alitano addosso per farsi coraggio. Militi quasi sempre ignoti, carichi di anice o di grappa, dentro la divisa il corpo umiliato dalla paura. Muli e corpi, in vita e senza vita, baionette e sfinteri, asini e assassini. All’arma bianca contro i cannoni, le schegge in pieno petto. Pazzi e capitani smaniosi di regalare alla patria le loro budella.

 

Di tanta carneficina non restava nulla, né rose, né fior, ma solo la roccia e le croci, le marce nella tormenta, gli alluci congelati, gli ospedali di campo, a migliaia, sbandati, accerchiati, l’estasi pazzoide dei corpo a corpo, a mani nude, la baionetta infilzata nelle carni purché altrui, trincea su trincea, ogni volta pensando alla propria bella lontana e il proprio culo vicino che reclamava il suo diritto di vivere. E ancora muli stremati e assassini all’arma bianca. Asini e assassini...

 

“Sul cappello che noi portiamo c’è una lunga penna nera, che a noi serve da bandiera, su pei monti a guerreggiar... Ohilalà …Evviva, evviva il reggimento, evviva, evviva il corpo degli alpin…”. A seguire: “Dimmi che m’ami, sono innocente come il sol che discende sul mar, voglio dare l’addio all’amor oi sisì oi nonò…”...“Dove sei stato mio bell’alpino, che te ga cambia’ colore…”.

Mio padre cantava a squarciagola.

 

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- Tua madre, non c’era verso, voleva sempre cantare. Era stonata peggio di una somara incinta, ma si sentiva Nilla Pizzi...

Ma lei non c’era più. E nemmeno io c’ero più. Tramortito da cima a fondo. Presi dalla tasca la lettera di Bianca e scrissi di getto su un margine bianco con il mozzicone di matita che tenevo sempre nel taschino. Volevo scrivere “asino” o forse “assassino”, ma scrissi “asssino”. Le tre esse. Sempre lui. Il mostro a tre teste.

 

L’incidente che aveva scatenato la furia di mio padre, lo stesso che ora cantava allegro al mio fianco. Mi sforzai come allora, come fece al tempo il bambino che avevo adottato, di leggere quella parola deforme. Come allora, lo stesso spasmo alla laringe. Mi uscì solo un suono da giungla, malato, orribile, straziante. Asino o assassino? Ora dipendeva solo da me. Toccava a me decidere, una volta per tutte.

 

“Noi ci darem la mano ed un bacin d’amor...”.

 

Mio padre gorgheggiava come un usignolo ed io gemevo al suo fianco, come ai vecchi tempi, quando essere suo figlio era spavento quotidiano. No, non era stato quel portacenere omicida a terrorizzarmi, né la sua faccia deformata dall’odio, ma quell’aborto illeggibile carico di “esse”. Quel sadico refuso. Uno scherzo davvero troppo crudele. Ma anche un avvertimento. Con le parole non si scherza. Devi vestirle bene, con l’abito giusto della festa, prima di lasciarle andare. Ti devi liberare di loro. Se ti restano dentro, sono piene di rancore, ti mangiano vivo.

 

Tutto si allineava ora nella mia memoria. La mia voce che tornò a fluire melodiosa la prima volta che una ragazza di Tivoli che somigliava a un lottatore di sumo mi baciò in quel viottolo di campagna e mi strappò via la lingua dal suo filo spinato. E, con lei, tutti i suoni del mondo, intrappolati lì, chissà da quanto, nello stesso bunker, tutti liberi adesso di vagare nello spazio.

 

Mio padre cantava ed io incespicavo. Baciami piccina, ovunque tu sia.

 

Arrivammo in vetta, lui euforico, io sottosopra. Non ci fece caso.

 

- Vieni qui, figlio mio. Sei pronto a sperimentare una meraviglia?

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Mi mostrò orgoglioso l’ultima creatura del suo amico sindaco. Una latrina tecnologicamente avanzata sul monte Grappa, nei pressi dell’Ossario, per i turisti che hanno la sciolta d’alta quota. Un modello all’avanguardia, il portarotoli con un kit inserito di matite e penne, la carta igienica con brani incisi del Vangelo, massime Tao lette da Nando Gazzolo e, a scelta, barzellette raccontate da Walter Chiari. Un’arpa birmana come colonna sonora per liberare gli sfinteri più pigri.

 

Toccò a lui il discorso pubblico. Ci sapeva fare.

 

- Il mio amico sindaco conferma una volta di più che non trascura nulla per la gioia dei suoi concittadini. Dovete essere orgogliosi di lui. Arrivare quassù, liberi di ammirare questa meraviglia, significa anche concedere al proprio corpo il massimo svago possibile, ricordare che siamo fatti di spirito ma anche di carne. Stiamo parlando di una tecnologia all’avanguardia, che dissolve tutto chimicamente. Voci e suoni celestiali, fatti apposta per sciogliere le nostre difese più ostinate. Perché, lasciatelo dire a uno che se ne intende, la stitichezza è il più grande flagello dell’umanità...”.

 

A suo modo, era un uomo colto mio padre.

 

- Ippocrate, lui sì aveva capito tutto, quando pretendeva dai suoi pazienti due, tre evacuazioni il giorno.

 

Mollò uno dei suoi ghigni, non belli a vedersi. Era un uomo goffo, ridicolo, senza il collo, con due orecchie smisurate e una prosopopea senza fondamento.

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Fu chiesto a lui, la celebrità del paese, d’inaugurare la latrina con una pisciata memorabile, la prima di una lunga storia. Lui lasciò a me il privilegio. Ma io mi tirai indietro. Non me la sentii di fare uno show della mia pisciata, a due passi dai martiri. Ci pensò lui, come sempre, a tenere alto l’onore della famiglia. Il sindaco tagliò il nastro e lui s’infilò deciso nella latrina. La voce di Nando Gazzolo insieme all’arpa birmana accompagnarono la sua impresa. Lo sciacquone a vortice rapido annunciò il lieto fine dell’impresa.

 

Quando riemerse, fu accolto dall’applauso entusiasta della folla. Si era dimenticato di abbottonarsi la patta.

 

Era tempo di tornare. Non si fidò di lasciarmi il volante. Aveva voglia di parlare di sé.

- Ma dimmi di te, come ti vanno le cose?

 

- Non male pa’... Gli ultimi concerti sono andati alla grande. Jonathan Mesto ha fatto il pieno specialmente al Sud.

 

Mio padre era quel tipo di persona che ogni tanto finge d’interessarsi al prossimo. Una debolezza che durava pochi secondi.

 

- Sai, i soldi non mi mancano, quel che basta per vivere con decenza. Cattivi consigli e avvocati ingordi mi hanno quasi prosciugato, ma non mi lamento... Per quel poco che mi resta da vivere, voglio fare qualcosa di utile.... So di essere stato un cattivo marito e un pessimo padre...

 

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Era nel pieno del suo delirio di autocommiserazione. Mi raccontò dei suoi propositi di redenzione, che si era offerto come volontario ai servizi sociali del comune di Feltre che cercava pensionati e nonni per proteggere i bambini dai pedofili all’uscita delle scuole.

- Sai una cosa? Tua madre sarebbe stata fiera di me.

 

Sospirò scenico.

Era troppo. Ucciderlo? Troppo poco. L’avrei torturato. Da vivo e da morto. E l’avrei chiuso in una bara del legno più schifoso e poi ci avrei fatto piantare il doppio dei chiodi necessari.

 

Ci fermammo per una sosta fisiologica su uno strapiombo che dava a picco sulla valle, immersa nel nebbione. La sua prostata era imperiosa quanto lui. Ci sistemammo a pochi metri di distanza, ognuno con il suo ridicolo arnese gocciolante.

Quasi non lo scorgevo mentre si liberava sul ciglio del burrone, ma ne avvertivo la sagoma chiatta e maleodorante, allacciata stretta nel suo cappotto spinato.

- Sai una cosa, c’è più gusto a pisciare qui all’aperto che nella super latrina del sindaco...

 

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Rise sgangherato. Sarebbe bastato un nulla, un’inezia per precipitarlo giù, sfracellarlo, lui, il suo cappotto e il suo cappello da bersagliere. Eravamo soli. Una lieve spinta e tutto sarebbe finito. Il mostro troppo loquace trasformato in un fagotto rotolante e poi un ammasso di cellule morte dentro uno stupido cappotto. Un attacco di vertigine. Chi mai avrebbe potuto eccepire? Un bersagliere non è un alpino. Ma, lui parlava, parlava, parlava. Parlava anche mentre pisciava. Delle maledette latrine del sindaco, del tempo, delle sue buone azioni. Asino o assassino? Eccomi al bivio, io, Presunto, all’appuntamento di tutta una vita, tutta la mia fin lì trascurabile vita sospesa in quel dilemma, ora in quello strapiombo, in quella foiba che somigliava a una fobia.

 

Cercai Maria tra le nuvole che mi aiutasse a spingere quello scarafaggio nell’abisso ma vidi solo la bolla di smog color escremento che in quei giorni schiacciava la Valsugana come una coperta sudicia.

 

Veniva dall’Oceano Indiano, una macchia di tre chilometri che aumentava via via di spessore. Gli ambientalisti avevano lanciato l’allarme: era una nube molto tossica. I palloni sonda avevano rivelato una forte concentrazione dello zolfo di pessima qualità scaricato dalle centrali a carbone di Pechino e Shanghai, misto all’azoto dei gas di scarico del traffico urbano e delle ceneri salite in massa dagli incendi delle foreste indonesiane, soprattutto dai camini del subcontinente indiano, e dallo sterco di vacca bruciato a tonnellate nelle stufe. Il risultato era una patacca oleosa di particelle sottili che galleggiava putrida nel cielo e che i venti spingevano da est a ovest, fino al Mediterraneo e ora diretta verso l’Atlantico del nord.

 

Gli effetti pestilenziali di quella melassa cominciavano a farsi sentire sulle cose e sulle persone sottostanti. I contadini stavano con il naso all’insù, a bestemmiare quell’escremento gassoso che li privava della luce necessaria per le coltivazioni.

 

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Ero lì perso a cercare Maria in quella putredine di cielo, quando un colpo brutale di clacson mi riportò alla realtà. Era lui che mi reclamava, illeso, al volante. Si sarà abbottonato la patta?

 

Avevo mancato l’occasione. Ero un gigantesco vigliacco io o era scandalosa l’imperfezione della vita? Era il suo alito pesante che si mischiava ora a quello del fieno, del fango, dei garofani che marciscono e delle bestie che arrivano a passo di carica? Era un asino quello capace solo di ragliare dentro quell’Alfa governata dal demonio. Un demonio in vena di confidenze. 

 

- Voglio dirtelo, ora che siamo quassù, io e te soli. Sono stato molto depresso. Una brutta malattia. Sai, quella storia dello scandalo, la televisione che improvvisamente mi dà un calcio in culo, io che divento per tutti un depravato, tu lontano, tua sorella sparita nel suo maledetto convento, senza più una donna vicino. Avevo anche deciso di farla finita, una volta per tutte, di gettarmi dal terrazzo di casa. Ma, poi ho pensato, che no, che sarebbe stata una volgare piazzata, anche molto egoistica e che voi figli vi sareste vergognati di me. Vedi, io non sono molto intelligente ma sento che, a modo tuo, almeno tu mi vuoi bene, perché in fondo, questo lo sappiamo, vero, io e te ci somigliamo, siamo due facce della stessa medaglia.

 

Disse proprio così, “Due facce della stessa medaglia”.

Non ci tenevo ad approfondire, ma la curiosità mi divorava.

- In che senso siamo due facce della stessa medaglia?

- Ma è chiaro, nel senso che io sono più sfacciato di te, più arrogante, più greve, forse anche un po’ mascalzone, tu sei più timido, hai sempre l’aria di pensare qualcosa di delicato ma, alla fine, tutti e due, eccoci qua, guardateci, siamo uguali. Ce ne fottiamo del mondo, sempre concentrati su noi stessi, e nessuno ci cambia più. Solo che io ne ho fatto la mia grandezza e tu la tua debolezza.

 

Ero d’accordo con lui. Mi odiai per questo. Arrangiai una mediocre replica.

- Non è così, non siamo così pessimi come ci racconti...

- Forse anche peggio...Dammi retta.

Fermò di colpo la macchina alla fine di un tornante, davanti a uno dei tanti piccoli cimiteri dispersi nella foschia del Grappa.

 

- Seguimi. Ho una sorpresa per te che ti lascerà senza fiato.

C’inoltrammo all’interno del cimitero, lui con il suo passo breve e deciso da botolo eccitato, io spaventato e inutilmente più alto di lui. Si fermò compunto davanti a una lapide di marmo. Era la tomba di famiglia. Nuova di zecca. Un sepolcro per quattro ospiti con lo stesso cognome. Due sotto, i genitori, e due sopra, i figli. I nomi già incisi sulla lapide, quello di mia sorella Bianca e il mio, Presunto, con le foto di entrambi, la data di nascita e quella di morte lasciata in bianco.

 

giancarlo dotto giancarlo dotto

- Un giorno ritorneremo qui tutti uniti su questa montagna, sotto questo cielo e nessuno potrà mai più separarci... Sai, mi sento come i salmoni che risalgono la corrente e tornano a morire dove sono nati, senza rimpianti, pare. Qui c’è un posto per tutti noi. Tua madre sarà sepolta lì. Lì sono io. Quello con il tuo nome è il tuo posto...

 

    Questo padre maleodorante che non la smetteva di elogiare cessi e di assegnare tombe, il viaggio, i tornanti, le strofe degli alpini, l’aria rarefatta, la notte da incubo. Troppo per un uomo solo. Un pensiero mi attraversò come uno spiedo. E se mio padre, sul ciglio di quel burrone, avesse fantasticato anche lui di spingermi nell’abisso? Rabbrividii. In quel caso, nulla lo avrebbe fuorviato, non certo una stupida nuvola o un nome di donna. Certo, sarebbe stato più deciso di me. Io ero inadatto all’azione.

 

Mi sentii mancare al pensiero. Per non cadere, mi appoggiai schifato sulla spalla del genitore, che equivocò quel gesto per uno slancio d’affetto e lo ricambiò con un abbraccio energico, interminabile. Il primo da tempo immemore, da quell’uomo che non ero mai riuscito a chiamare padre.

 

- Sai, aspettavo da troppo tempo questo momento...

Piagnucolò il mostro nel suo fagotto di lana.

Asino o assassino? Era l’abbraccio ora che mi confondeva.

 

Era talmente euforico d’avermi coinvolto nella sua impresa funeraria di famiglia che non si accorse minimamente del mio stato di choc. Era Lucifero. Si stava prendendo gioco di me. Io ero lì per cancellarlo dal mondo e lui mi mostrava la lapide su cui mancava solo la data probabilmente imminente della mia morte.

 

- Sai cosa ti dico figlio mio? Ti lascio il volante. Ho i miei anni e perdo colpi. La montagna è veleno per la mia pressione. Mi sa che schiaccio volentieri un pisolino. Cerca di portarmi sano e salvo a casa. Non sei mai stato un fenomeno alla guida...

Io, suo figlio, la sua discarica, ora il suo autista. Lui ora al mio fianco, due facce della stessa medaglia, l’incidente spermatico in gita sul Monte Grappa, lui asino ed io l’assassino o viceversa?

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Mi voltai a guardarlo. Stava già dormendo su un fianco con la bocca spalancata dei cadaveri che se ne fottono di chi li guarda sgomenti. Iniziai bisbigliando, come parlando a me stesso, poi sempre più forte, a voce alta.

Mi lasciai andare, poco a poco, fino a che mi ritrovai a urlare. Trovai la forza di dirgli tutto quello che non ero mai riuscito prima. Tutto quello che pensavo di lui. Tutto il mio orrore. Dell’animale immondo che era. Di me, di mia madre, di mia sorella, della madre di Maria. Di Maria, soprattutto. Di tutte le donne ferite a morte che aveva lasciato sul suo cammino.

L’immagine di mia madre si confondeva ora con quella della madre di Maria, la contadina e la ballerina, mia sorella che supplicava aiuto dalla grata e Maria che implorava vendetta dal suo capezzale.

 

GIANCARLO DOTTO GABBIANO GIANCARLO DOTTO GABBIANO

Indovinai mia madre in fondo a un tunnel. Sparai tutta la luce che avevo. Non bastava. La intuivo appena stesa sul pavimento della cantina. Lo stupore degli occhi spalancati e fermi, il freddo che le gelava il sangue. Avrà avuto il tempo di sentirsi perduta? Il tempo di chiedermi aiuto? Era lei o Maria quella che vedevo in fondo al buco nero? E dov’ero io, dentro o fuori il loro benedetto ventre maledetto, a raspare la terra, come un gattino cieco che confonde entrate e uscite, mentre lei soffocava, mentre lei moriva, io dentro una stupida Panda color vomito, asino o assassino, e mio padre accanto, il più astuto di tutti, che fingeva di essere morto per non morire davvero.

 

- Chiedici perdono, ti supplico, almeno questo, chiedici perdono!...

Gridavo e imploravo nella nebbia, le mani strette al volante. Ma lui taceva. Non rispondeva. Dormiva della grossa. O faceva finta di dormire.

E’ la tattica delle bestie quando fiutano il pericolo. Fingere di dormire o di morire.

 

 

giancarlo dotto e carmelo bene giancarlo dotto e carmelo bene

 

 

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