LA DOPPIA ANIMA DI VERONESI: “SONO ERMAFRODITA, IN SENSO INTELLETTUALE, UN CORPO DA UOMO CON UNA MENTE FEMMINILE - SONO L’UOMO DELLA SPERANZA MA PORTO DENTRO DI ME LA FOSSA COMUNE DI TUTTI I PAZIENTI CHE HO PERSO”

Luca Ubaldeschi per “la Stampa

Umberto Veronesi Umberto Veronesi

 

Come a volte succede con le grandi storie, tutto è cominciato per caso: «Era un giorno d’estate, inizio Anni 50, io giovane assistente all’Istituto tumori di Milano. Il responsabile del reparto va in ferie, il vice pure, mi chiamano, “Tocca a te”. Era la prima volta che operavo una donna al seno».
 

Umberto Veronesi ricorda bene la paziente di quel giorno, passo iniziale di un percorso che lo ha portato a diventare il simbolo della lotta ai tumori: 30 mila donne operate, quasi 300 mila visitate, circa 5 milioni nel mondo che hanno salvato il seno grazie alla sua tecnica rivoluzionaria. 
 

IOLE CISNETTO E UMBERTO VERONESI IOLE CISNETTO E UMBERTO VERONESI

Oggi, alla vigilia di scadenze importanti - venerdì compie 89 anni, a fine anno lascerà la direzione scientifica operativa dello Ieo, Istituto europeo di oncologia, la sua creatura, per rimanere come emerito -, l’oncologo più famoso riflette sulla sua straordinaria esperienza di medico con parole non scontate: «Vivo da sempre una situazione di schizofrenia. Sono l’uomo della speranza, però immerso ogni giorno nel dolore.

 

Devo trasmettere fiducia e ottimismo, ma nel profondo sono angosciato, tormentato, sento un nichilismo alla Nietzsche, porto dentro di me la fossa comune di tutti i pazienti che ho perso». Un concetto, quello della doppia condizione psicologica, che Veronesi spinge ancor più in là: «Sono ermafrodita, in senso intellettuale: un corpo da uomo con una mente femminile».
 

UMBERTO VERONESI UMBERTO VERONESI

Per questo ha dedicato la vita ad aiutare le donne?
«Quando feci quel primo intervento, ero convinto della tecnica che si usava: mastectomia bilaterale con rimozione dei muscoli del torace. Si pensava fosse l’unico modo per salvare la vita delle pazienti, ma era un massacro.

 

Quasi il 50% dei mariti lasciava la moglie che perdeva un seno per il tumore, le donne stesse rifiutavano l’intimità. Probabilmente è stato il rispetto sacrale che ho fin da bambino per il corpo femminile - io, orfano di padre, cresciuto in un ambiente di donne - a farmi dire no a quella mutilazione. Mi sono messo a pensare, studiare, ricercare».
 

GIOVANNI UMBERTO CON ENRICO E IOLE CISNETTO GIOVANNI UMBERTO CON ENRICO E IOLE CISNETTO

E ha maturato la convinzione che essendo la ghiandola mammaria composta da diversi lobi, forse si poteva rimuovere soltanto quello colpito dal tumore e salvare il seno. Ma non è stato facile rovesciare il credo dominante, vero?
«Esposi l’intuizione ai miei colleghi e ricevetti accuse feroci, fui considerato un ciarlatano che voleva scardinare i dogmi per fare carriera e soldi. Ci fu chi disse che volevo sacrificare vite umane per diventare famoso.

 

Ma non mi arresi, conclusi la sperimentazione nell’isolamento e fra dubbi atroci. Furono anni bui. Poi arrivò la vittoria scientifica, il mio lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine e rilanciato nel 1981 dal New York Times in prima pagina. Fu la svolta: altri media ne parlarono, le donne andavano dai medici col giornale in mano chiedendo che salvassero loro il seno».
 

UMBERTO VERONESI UMBERTO VERONESI

Oggi la sua tecnica, la quadrantectomia, è patrimonio globale. E negli ultimi 15 anni le sue pazienti sono guarite nel 94% dei casi. Ma che cosa vede, oggi, nei loro occhi?
«Paura, ancora. La diagnosi di cancro provoca alle donne un corto circuito cerebrale. Il primo pensiero sono i figli, “Chi si prenderà cura di loro?”. A dispetto di indici di guaribilità sbalorditivi, se pensiamo che all’inizio del secolo scorso le guarigioni erano vicine allo zero e negli Anni 50 al 20%».
 

Oggi il rapporto con il malato è più facile o difficile?
«Direi più complesso. La paziente arriva dopo aver letto tutto su Internet e questo è spesso un disastro, perché il web informa, però non spiega. Si legge “carcinoma”, ma la parola in sé dice poco, perché è la dimensione a fare la differenza tra la vita e la morte. Il cancro del seno è malattia legata alla dimensione, dunque alla diagnosi precoce.

UMBERTO VERONESI UMBERTO VERONESI

 

Uno studio dello Ieo ha scoperto che in caso di tumore impalpabile la guarigione arriva al 99%. Se ogni donna facesse regolarmente mammografia, ecografia, risonanza magnetica, il problema sarebbe risolto. Ma non è così semplice, dipende da dove vivi, dai costi, dall’organizzazione».
 

Al paziente dice la verità?
«Distinguo due momenti, diagnosi e prognosi. La diagnosi, cioè che cosa ha il paziente, è certa e come tale va comunicata. Ma per la prognosi - come evolverà la malattia, come reagirà il corpo, quanto vivrà il paziente - c’è sempre un margine di incertezza e in quel margine abita la speranza. Nessun medico ha il diritto di togliere la speranza, perché quando si dice a una persona che dovrà morire, è come se morisse in quell’istante. Attenzione: questo non è tradire la fiducia del paziente, ma provare a capire».
 

Capire che cosa?
«Che una malattia colpisce un organo, ma viene elaborata da una mente. Lo stesso male può essere più o meno sopportabile a seconda della persona che lo percepisce. Ecco perché dico che bisogna tornare alla “Medicina della persona” (di cui Veronesi parlerà oggi alla Statale di Milano nell’incontro “Uniti per i pazienti”, ndr).

 

UMBERTO VERONESI E MOGLIE UMBERTO VERONESI E MOGLIE

Per curare qualcuno dobbiamo sapere chi è, che cosa pensa, che progetti ha, per cosa gioisce e soffre. Dobbiamo far parlare il paziente della sua vita, non dei disturbi. Oggi le cure sono fatte con un manuale di cemento armato: “Lei ha questo, faccia questo; ha quest’altro, prenda quest’altro”. Ma così non è curare».
 

Professore, questa sarebbe un’altra rivoluzione...
«È quella che a livello internazionale si chiama “Medicina narrativa”. Curare è prendersi cura della persona senza lasciare che abbia il sopravvento la medicina d’organo. Sono stufo di sentire in sala operatoria “Che cosa abbiamo oggi? Un polmone, un fegato...”, senza sapere a chi appartengono quel polmone e quel fegato. Ai medici non piace legarsi al paziente, nel timore di perdere obiettività, e spesso non disdegnano di drammatizzare la malattia perché così aumenta la loro missione salvifica e dunque il potere».
 

UMBERTO VERONESI GIANNI LETTA UMBERTO VERONESI GIANNI LETTA

I medici italiani sono pronti a questo salto?
«Devono imparare a fare un lavoro diverso. Oggi la tecnologia offre scenari inediti, possono fare una diagnosi senza palpare un paziente o operarlo senza toccarlo, attraverso un robot. Questo dà più tempo per conoscere la persona che si ha davanti».
 

UMBERTO VERONESI ANTONIO ROMANO UMBERTO VERONESI ANTONIO ROMANO

C’è anche un problema legato alle parole da usare?
«Penso spesso che la parola cancro vada eliminata per il potere paralizzante di cui ho parlato. Tumore è già meglio. Oppure neoplasia. Allo Ieo quasi non usiamo più carcinoma».
 

PAOLO GARIMBERTI UMBERTO VERONESI PAOLO GARIMBERTI UMBERTO VERONESI

Però la questione di fondo è la sconfitta definitiva del cancro. Succederà?
«Io non la vedrò, ma succederà. Fra qualche anno cureremo tutti i tumori. Lo faremo grazie alla diagnosi precoce, per ora abbiamo farmaci risolutori solo per alcune forme di tumore».
 

Professore, come vorrebbe essere ricordato?
«Come uno che ha contribuito a migliorare la qualità della vita, soprattutto delle donne. Dopo secoli di maschilismo, le donne stanno prendendo più potere in tanti campi, nella sanità, nei media, nella magistratura. È una fortuna: la donna è pacifista, conciliatrice, l’uomo è violento e aggressivo. Si va verso una maggiore parità e il prezzo da pagare è anche una più bassa attrazione fra i sessi. Andiamo verso un’umanità bisessuale. Non è detto sia un male».
twitter @lucaubaldeschi

VERONESIVERONESI

 

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