FBI, FEDERAL BUREAU DEGLI INGANNI – UNA RICERCA DEGLI AVVOCATI AMERICANI SCOPRE CHE CENTINAIA DI ESAMI DEI CAPELLI SONO STATI TRUCCATI DALL’ACCUSA – CONDANNATE A MORTE INGIUSTAMENTE 32 PERSONE (E 14 SONO GIÀ STATE GIUSTIZIATE)

Sono state rivisti i dati relativi a 268 processi e nel 95% le analisi dell’Fbi sono risultati scorretti. Molti imputati salvati dagli esami del Dna. Ma non tutti gli accusati hanno i soldi per chiedere le controanalisi forensi…

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Vittorio Zucconi per “la Repubblica

 

Morire per un capello, nell’illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l’Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di “prove” costruite sull’esame dei capelli.

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Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l’innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal “Progetto Innocenza”, emerge che l’Fbi ha barato quasi sempre a favore dell’accusa utilizzando l’esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate.

 

L’espressione che l’inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l’impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l’Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all’accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano.

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Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l’imputato l’Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l’errore è andato a favore dell’accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l’errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all’assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l’apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna.

 

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L’Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali «sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l’applicazione di tutte le scienze forensi ». Mentre tutti i condannati in processi basati sull’esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari.

 

La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l’Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l’incriminazione e poi la condanna dell’accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono «giustizia» indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell’accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere.

 

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Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l’esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell’amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell’accusato e dell’imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l’esito di un procedimento.

 

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Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l’accusa «nel nome del popolo», la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.

 

 

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