L'INFERNO CHIAMATO CARCERE - UN DETENUTO SU DUE ABUSA DI PSICOFARMACI - “PIÙ DI UN TERZO SONO ANSIOLITICI. E’ UNA DIPENDENZA NASCOSTA” - L’ALLARME DEL GARANTE: "NELLE PRIGIONI ITALIANE SI ENTRA PULITI E SI ESCE DIPENDENTI” - ABBONDANO ANCHE I MALATI DI MENTE

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Giacomo Galeazzi per “la Stampa”

 

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«Terapia!», urla il secondino spingendo il carrello dei farmaci lungo il corridoio. Sono le sette di sera e i detenuti si accalcano contro le porte delle celle per la loro dose di serenità artificiale. Anch'io allungo la mano e prendo le mie gocce, mentre Osvaldo, veterano del terzo braccio, dal suo letto riparte con la solita solfa: «Una volta davano le pasticche: le mettevi da parte, le accumulavi per un giorno speciale, poi le mandavi giù tutte in un colpo e allora sì che era festa». Lo ripete tutte le sere.

 

«Quand'ero fuori non prendevo nulla, nemmeno un' aspirina - racconta -.Ora penso che dovrò disintossicarmi da queste maledette gocce. Ma sono l' unica cosa che mi fa dormire in queste notti che non finiscono mai, quando guardo fisso il blindo chiuso e penso ossessivamente a perché sono qui. E penso a Caterina, che vorrei mia. E invece arriverà solo lunedì, giorno di visita: e sarà come sempre a due metri da me, nella stanza dei colloqui ghiacciata, coi muri di cemento, insieme ad altri mille come me. Questa stessa scena potrebbe svolgersi in uno qualunque dei 191 penitenziari italiani.

 

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PILLOLE A PIOGGIA

Una pioggia di pillole colorate si riversa tutti i giorni sui detenuti italiani. Un dato empirico sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, anche se al momento non esistono ricerche che coprano l'intera Penisola. Un problema tanto grave da far denunciare a Francesco Ceraudo, per 40 anni dirigente sanitario dell'ospedale penitenziario Don Bosco e per 25 presidente dell' Associazione nazionale dei medici dell'amministrazione penitenziaria: «Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti».

 

Una forzatura, forse, ma neppure tanto. Per capirne le angolature è necessario partire dai dati. Ma purtroppo questi non sono copiosi come blister e flaconi che circolano per le 206 infermerie degli istituti penitenziari. Dal 2008 la salute dei detenuti è passata dall'amministrazione penitenziaria alle Asl territoriali. Il che se per certi versi è una conquista storica, per altri significa ognun per sé.

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Lo studio più recente e completo risale così al 2014 («La salute dei detenuti in Italia»), un'indagine dell' Agenzia regionale della sanità Toscana che ha coinvolto 57 strutture detentive (il 30% di quelle italiane), cinque regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti.

 

Nella ricerca spicca un dato: il 46% dei farmaci prescritti sono psicofarmaci. La quasi totalità di questi (95,2%) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici (37,8% del totale) a fare la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d' età 18-29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina.

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Torniamo quindi al nostro detenuto che sogna Caterina e cerchiamo di capire qualcosa di più del loro mondo. A partire dal disagio nell' adattarsi alla vita del recluso. «Il contatto con un ambiente ostile e di privazione delle sessualità provocano alterazioni psicologiche - spiega Ceraudo -. Nel resto d'Europa l' introduzione di "stanze dell' amore" per l' incontro con le compagne ha ridotto violenze e deviazioni sessuali, soprattutto verso giovani e trans».

 

Non solo: «Molti chiedono qualcosa per dormire perché stanno 19 ore al giorno a letto, non si stancano e quindi non riescono a prendere sonno. Il rumore in carcere è onnipresente, non smette mai, neppure di notte. I detenuti sono così privati anche dei sogni».

 

IL TRAUMA DELL'AMBIENTE

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L' ingresso in carcere è il trauma originario. I nuovi giunti devono adeguarsi in fretta alle regole di un ambiente che non conoscono, ma non solo. Dice Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti e fondatore di Antigone. «La dipendenza dagli psicofarmaci riguarda soprattutto i detenuti comuni - chiarisce -. Quelli legati alla criminalità organizzata hanno loro condotte e stili di vita differenti. Seguono codici diversi».

 

Inoltre «occorre distinguere tra case circondariali e di reclusione. Nelle prime i detenuti restano poco tempo quindi fanno subito richiesta di psicofarmaci per il disagio del primo impatto con l' ambiente».

 

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Nelle case di reclusione, invece, «ci sono persone detenute da molti anni che prendono psicofarmaci abitualmente per vincere situazioni di tensione: la loro dipendenza dagli psicofarmaci è più grave perché assumono pillole non per il traumatico impatto con un nuovo ambiente, ma come stile di vita, così non si liberano di questa dipendenza nemmeno quando escono». È il caso di Osvaldo, detenuto già integrato, che preferisce le pillole che può capitalizzare, triturare, scambiare, sovradosare.

 

MERCATO NERO

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Non a caso negli ultimi anni le infermerie in carcere preferiscono, dove possibile, la somministrazione in gocce invece che in pillole. Il mercato nero, le overdosi e la pratica del detenuto di nascondere le pillole sotto la lingua hanno fatto nascere addirittura la «terapia a vista» nella quale l'infermiere si accerta che il paziente ingoi effettivamente la pastiglia. Il 50% di detenuti, nella ricerca multicentro del 2014, mostra una dipendenza da sostanze. Il 23,7% è entrato in carcere con alle spalle una storia di tossicodipendenza da stupefacenti.

 

Un problema diffuso nelle carceri, accentuato dalla legge Fini-Giovanardi, oggi decaduta, che aveva riempito gli istituti italiani di tossicodipendenti e consumatori. Dipendenza indotta dall'adattamento, precedente abuso di sostanze, c'è anche un terzo fattore che spinge la diffusione di psicofarmaci nelle carceri: il controllo da parte della stessa polizia penitenziaria. Costantemente sotto organico e con un problema gestionale dovuto al sovraffollamento, sono gli operatori stessi a incoraggiare l' assunzione di psicofarmaci.

 

luigi manconi luigi manconi

«È un dato inconfutabile - evidenzia Luigi Manconi, presidente della Commissione del Senato per i Diritti umani -. Lo attestano tutte le ricerche, inclusa l' indagine sulla salute in cella realizzata nel 2008 da Marina Graziosi ed Elina Lo Voi . È una realtà confermata da ogni operatore penitenziario: dagli educatori ai cappellani. Proprio come accade anche nei centri di identificazione, per esempio Ponte Galeria e Bari. Tavor e altri sedativi per tenere calma la situazione». E, aggiunge, «alla mie richieste di spiegazioni sull' utilizzo massiccio degli psicofarmaci, mi è stato risposto che le pillole vengono date solo a chi ha già una prescrizione medica ma è chiaro che le cose non stanno così».

 

Gemma Brandi Gemma Brandi

Ed è un connubio pericoloso quello tra l' esigenza dei detenuti di spegnere il cervello e quella delle guardie di gestire una moltitudine umana in condizioni di reclusione. «La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti - analizza ancora Ceraudo -. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso. È meglio anche per i medici e gli infermieri che se ne stia tranquillo, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità».

 

Ma così il carcere diventa una fabbrica di zombie che poi reimmette nella società con una dipendenza non curata. E poi c'è un quarto fattore. Forse il più taciuto, sottostimato, inconfessabile, scandaloso. Lo denuncia Gemma Brandi, infaticabile pioniera del campo e fondatrice della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria.

 

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«Ritengo che il disordine psicopatologico che porta e riporta taluni in carcere sia decisamente più serio e significativo, per gravità e incidenza, del disagio causato dalla detenzione», afferma. «La malattia mentale in carcere è molto più presente di quel che si pensa».

 

Una considerazione, quella della dottoressa Brandi, che deriva dall' osservazione sul campo, a stretto contatto con le realtà detentive e degli ex ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). «Da anni ci accorgiamo che mentre negli ospedali psichiatrici giudiziari diminuiscono gli internati, dall' altra aumentano in carcere. Un terzo di coloro che escono ce li ritroviamo in istituto penitenziario dopo qualche mese».

 

Un fenomeno di reistituzionalizzazione che si è accentuato negli ultimi anni, quando il carcere ha perso le sue aspirazioni rieducative per diventare, in una società fortemente consumistica, individualista e neoliberista, il luogo del controllo sociale degli emarginati, siano essi stranieri, tossicodipendenti o folli.

 

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Carenza di psicologi I l carcere, dunque, si trova ad affrontare il problema di una parte della sua popolazione che necessita di una coazione, seppur benigna, di un' altra che di quella coazione non ha bisogno, ma che la ricerca. Come poteva finire? La risposta è stata quasi esclusivamente farmacologica.

 

Il biperidene (un farmaco antiparkinsoniano con effetti euforici), la quietiapina (un antipsicotico) e il clonazepam (una benzodiazepina che ad alte dosi ha effetti disinibenti) sono diventati la scorciatoia chimica alle contraddizioni del carcere. L' iper assunzione di farmaci è un fenomeno che si riscontra anche nella società fuori dalle mura penitenziarie, ma dietro le sbarre si è accentuato.

 

L' alternativa, la terapia psichiatrica, è quasi assente. In ogni carcere la copertura medica dello psichiatra è riconosciuta come una necessità, ma il monte ore degli specialisti è di 105.751 ore: per 54 mila detenuti significa meno di due ore all' anno. Entrano in questo gioco perverso anche le case farmaceutiche. Negli ultimi anni in molti farmaci è aumentato il principio attivo a livelli esponenziali. «È un business colossale, sotto traccia, le le Asl - rivela Ceraudo - stipulano accordi con le case farmaceutiche e acquistano i loro prodotti a un prezzo ridotto del 60%». Ma le benzodiazepine creano più dipendenza del metadone. Chi entra pulito esce dipendente. La mancanza di cartelle cliniche informatizzate impedisce di seguire terapie una volta che il detenuto ritorna alla cosiddetta società civile.

 

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Rieducazione fallita

A un certo punto il detenuto, ormai soggiogato, chiede all' infermiere dosi maggiori e pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 261 suicidi avvenuti nell' ultimo quinquennio e i 6000 casi di autolesionismo che si registrano ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, ricercano lo stordimento con il gas dei fornellini, quelli che l' amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni per evitare che, come dice ancora Ceraudo, «su 50 suicidi l' anno, dieci siano involontari e dovuti all' inalazione con un sacchetto infilato in testa».

 

La società, senza più la maschera della missione rieducativa della pena e scossa dalle istanze populiste, ha abbandonato i suoi figli più problematici. «Ci sono troppi casi di autolesionismo e troppi suicidi nelle carceri italiane - riconosce Palma -. Vengono ancora oggi dimenticate la dignità e la centralità della persona».

 

Così ogni sera, verso le 7, passa il carrello con la «terapia». Quello che, come cantano i «Presi per caso», gruppo nato a Rebibbia di cui fa parte anche Salvatore Ferraro, condannato per favoreggiamento nell' omicidio della studentessa universitaria romana Marta Russo, offre «venti gocce che calmano il malumore, ti fanno sentire libero e diventa bello persino questo bordello». Quello che ti fa scordare la compagna lontana, che fa fare festa in cella e che lascia dormire sonni tranquilli al direttore del carcere, agli agenti della polizia penitenziaria e ai bravi cittadini al di là delle s barre.

 

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