NO, IL MALE NON E’ BANALE - CHI ERA DAVVERO ADOLF EICHMANN, PADRE DELLA “SOLUZIONE FINALE”? - IL LIBRO DI UNA STUDIOSA TEDESCA SMONTA LA TEORIA CHE VOLEVA EICHMANN NAZI-FANATICO PER MIOPIA MORALE O CARRIERISMO PICCOLO BORGHESE: ERA ORGOGLIOSAMENTE ANTISEMITA

Giulio Meotti per "il Foglio"

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Non c’è tentazione più grande che addomesticare un assassino di massa imputando i suoi delitti agli infantili fantasmi domestici. Ma è falso che da bambino Adolf Eichmann fosse infelice e disadattato, che fosse uno studente problematico, scostante e solitario, un ragazzino sessualmente inibito, frustrato dalle crisi finanziarie del padre. Eppure, sul regista della “Soluzione finale” abbiamo letto ogni tipo di interpretazione psicologica che mirava a farne uno di noi.

 

Anche su Adolf Hitler si è perso il conto, dal testicolo mancante alle relazioni incestuose, fino al parente ebreo, l’ondinismo e l’escretofilia. Basta leggere il resoconto che la Stampa di Torino pubblicò durante il processo ad Adolf Eichmann che si svolse a Gerusalemme: “Nella persecuzione antiebraica quest’uomo meschino, inetto negli studi e nel lavoro, cercò una rivincita atroce al suo complesso di inferiorità: sui rancori dei piccoli borghesi i fascisti hanno costruito la loro fortuna; nelle schiere amareggiate dei falliti hanno trovato le loro truppe d’assalto. Proprio la miseria morale ha fatto di Eichmann uno fra i più atroci criminali del nazismo”.

 

EICHMANNEICHMANN

Per cinquant’anni, da quando il colonnello delle SS Adolf Eichmann venne impiccato dagli israeliani e le sue ceneri sparse nel Mediterraneo, l’architetto dell’Olocausto è stato raccontato come un grigio burocrate, un banale essere umano, la rotella senza volto di un più grande progetto assassino, spinto a farvi parte dalla pavidità, dalla voglia di ascesa sociale, dalla miopia morale piccolo borghese. E’ tempo di archiviare Hannah Arendt e il suo “Eichmann in Jerusalem”, pubblicato in Italia da Feltrinelli con il titolo “La banalità del male”, il libro che avrebbe tanto condizionato la riflessione sulla Shoah come un evento fatale perpetrato da uomini senza volto.

 

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A rimettere in discussione questa visione di Eichmann ci ha pensato la studiosa tedesca Bettina Stangneth, che ha lavorato sullo “stratega della Soluzione finale” per oltre un decennio, scavando a fondo nella sua storia.

 

Ne è uscito un libro straordinario, “Eichmann before Jerusalem”, uscito questa settimana negli Stati Uniti per Alfred A. Knopf e già recensito con grande rilievo da molti quotidiani. Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo di Gerusalemme. E aggiunge che forse “per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo”.

 

Forse ha ragione lo studioso Christopher Browning quando scrive che “la Arendt ha afferrato un concetto importante, ma non l’esempio giusto”. Stangneth ha lavorato in trenta archivi internazionali, consultando migliaia di documenti, come le oltre mille pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.

 

processoprocesso

“Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi – disse degli ebrei Eichmann – allora avremmo adempiuto il nostro dovere. Avremmo potuto dire: ‘Abbiamo distrutto un nemico’”.

 

Altro che Eichmann “incapace di pensare”, come venne descritto da Hannah Arendt. Scrive sempre Eichmann: “Non facemmo bene il nostro lavoro. Avremmo potuto fare di più. Non presi solo ordini, ero un idealista, facevo parte del processo pensante”.

 

In Germania il saluto romano costituisce reato In Germania il saluto romano costituisce reato

Fu lui, Eichmann, a organizzare la conferenza di Wannsee, nella villa fuori Berlino, dove venne pianificata la Shoah, la notte del 20 gennaio 1942. Bettina Stangneth ha scoperto una lettera del 1956 in cui Eichmann chiedeva all’allora cancelliere della Germania occidentale, Konrad Adenauer, di rientrare in Germania rivendicando quanto aveva fatto. “E’ arrivato il tempo di uscire dall’anonimato e di presentarmi”, scriveva l’uomo allora conosciuto in Argentina come Ricardo Klement.

 

“Non so ancora quanto il destino mi consentirà di vivere. Ma so che bisogna spiegare a questa generazione quanto è successo”. Stangneth rivela che la Germania di Bonn sapeva dove si era nascosto Eichmann, ma non era affatto intenzionata a catturarlo e tanto meno a metterlo sotto processo. Ciò avrebbe significato riaprire un capitolo nero del Dopoguerra tedesco (alcuni collaboratori di Adenauer erano stati coinvolti nella macchina di sterminio nazista). La storia ci ha lasciato due immagini di Eichmann.

 

Hitler e HimmlerHitler e Himmler

La prima, del 1942, è quella riprodotta milioni di volte del capo degli Affari ebraici della Gestapo, con il berretto e la testa di morto delle SS, lo sguardo arrogante, altero, e un sorriso che si trasforma in ghigno. Vent’anni dopo, Eichmann è un uomo senza volto, accomodante, dal sorriso accondiscendente, seduto dietro le lastre di cristallo spesse e forti come una corazza, che lo proteggono durante le udienze.

 

Non ha più l’atteggiamento di chi si appassiona per quanto gli succede intorno, non quello di chi, con disprezzo, rifiuta di prendere contatto con quanti lo circondano. E’ un atteggiamento solenne, di chi già pensa d’essere fuori delle piccole vicende quotidiane, bruciato nel passato e nell’avvenire, vivo in un mondo che soltanto lui conosce. Eichmann assomigliava a quei fachiri indiani, coperti di cenere, seduti lungo le rive del Gange a Benares. Anche lui stava seduto, ma su una seggiola.

Hitler potrebbe essere scappato in sommergibile Hitler potrebbe essere scappato in sommergibile

 

Teneva le braccia allungate di modo che le mani fossero all’altezza delle ginocchia. Le due palme aperte, di modo che le punte delle cinque dita della sinistra toccassero le punte della destra. Non c’era in lui nessun grande sentimento. Non quello di una spavalda ribellione o di una umile, ma coraggiosa, richiesta di clemenza. A mano a mano che parlava, Eichmann si consegnava al nostro ricordo come un uomo pauroso, guidato da un animo vile, sorretto da un pensiero insieme tortuoso e infantile.

 

Un giornalista francese mormorò: “O è pazzo lui o siamo pazzi noi”. Secondo Bettina Stangneth, fu una sceneggiata. Ma una sceneggiata che convinse la Arendt. Il libro di Bettina Stangneth connette quelle due immagini così diverse.

 

Nel suo esilio in Argentina, Eichmann scrisse persino un romanzo, “Tucumán Roman”, ancora in possesso della famiglia Eichmann, e firmò un contratto editoriale con la casa editrice Du?rer Verlag. Durante la guerra, mentre lo sterminio accumulava le sue vittime, Eichmann collezionava ritagli di giornale sulle proprie performance.

Le rotaie che portavano al campo di sterminio Le rotaie che portavano al campo di sterminio

 

“Nessuno aveva un nome come il mio nella vita politica ebraica in Europa”, scrisse Eichmann in appunti scoperti da Stangneth. “Io sono un bracconiere”, sospirerà. E ancora: “Farò funzionare i mulini di Auschwitz”. Una frase che negò di aver pronunciato al processo di Gerusalemme e che invece Bettina Stangneth ritiene autentica. Il colonnello era fiero del suo ruolo strategico nella distruzione degli ebrei d’Europa.

 

Era ossessionato e al tempo stesso affascinato dagli ebrei. In uno dei passaggi dei dialoghi argentini riscoperti da Bettina Stangneth, il gerarca dice: “Ora, tuttavia, quando vedo che attraverso la malizia del destino una gran parte di questi ebrei che abbiamo combattuto sono ancora vivi, devo ammettere che è il destino ad aver voluto così. Ho sempre sostenuto che stavamo combattendo contro un nemico che attraverso migliaia di anni di apprendimento e di sviluppo era diventato superiore a noi”.

Deportati ad Auschwitz Deportati ad Auschwitz

 

E’ lo stesso “specialista” che picchiò a morte un bambino ebreo che aveva rubato delle ciliegie nel giardino della sua casa, a Budapest. Mentre degli uomini stavano scavando, Eichmann si affacciò al balcone e gridò, in tedesco: “Hai rubato le ciliegie dall’albero!”. Lo ha raccontato Leopold Ashner.

 

“Eichmann e la sua guardia del corpo, un certo Slawik, scesero nel giardino e portarono il ragazzo in un capanno per gli attrezzi che sorgeva lì vicino. Vidi Slawik ed Eichmann aprire la porta del capanno ed entrare col ragazzo. Si chiusero la porta alle spalle e, poco dopo, sentii urla spaventose, colpi, suoni di pugni e di schiaffi, pianti. Poi le urla cessarono improvvisamente ed Eichmann uscì.

auschwitz auschwitz

 

Era tutto scompigliato, la camicia gli pendeva fuori dai pantaloni, intrisa di sudore. C’erano grosse macchie, sulla camicia, e pensai subito che erano macchie di sangue. Mentre mi passava vicino lo udii borbottare in tedesco: ‘Sporca razza’”. E’ lo stesso Eichmann che diresse le deportazioni di tutti i bimbi ebrei dalla Francia. Una sua direttiva parlava chiaro: “Per nessun motivo si deve recedere dalla linea precedentemente fissata nelle zone occupate dagli italiani, se si vuole che il problema ebraico sia risolto”.

 

Era un ordine di morte per tutti gli ebrei di Francia. Poi ci furono i bambini di Lidice. Il 29 maggio del 1942 Reinhard Heydrich, capo della polizia segreta tedesca e protettore di Boemia e Moravia, rimase ferito a morte in un attentato presso Lidice. La cittadina cecoslovacca fu rasa al suolo e i suoi abitanti sterminati. I bambini di Lidice, rimasti orfani dopo la strage compiuta dai nazisti, furono deportati a Lodz, in Polonia, dove furono affidati a uno dei luogotenenti di Eichmann, Hermann Krumey, che li fece “esaminare”.

 

Sette di questi bambini furono ritenuti adatti par la “germanizzazione”. Ne rimanevano cento, dai piccolissimi di un anno a quelli di undici. Krumey si rivolse allora ad Eichmann, il quale ordinò il “trattamento speciale”, e cioè lo sterminio. “Se a quell’epoca avessi potuto prevedere gli orrori ai quali sarebbe stato sottoposto il popolo tedesco, allora avrei obbedito agli ordini non solo con disciplina, ma anche con entusiasmo”, scrive Eichmann.

hannah arendthannah arendt

 

“Quando giunsi alla conclusione che fare agli ebrei quello che abbiamo fatto era necessario, lavorai con tutto il fanatismo che un uomo può aspettarsi da se stesso. Non c’è dubbio che mi considerassero l’uomo giusto al posto giusto… Ho agito sempre al cento per cento, e nell’impartire ordini non ero certo fiacco”.

 

Il gerarca parlava sempre del suo “capolavoro”, la deportazione verso la morte di circa 400 mila ebrei ungheresi nel 1944. Girò l’Europa a caccia di ebrei, e ovunque c’era lui con il taccuino: a Skopje in Macedonia nel 1943, a Ioannina in Grecia nel 1944, a Hanau in Assia nel 1942, a Westerbork nei Paesi Bassi, a Budapest in Ungheria, ad Auschwitz.

 

hannah arendt hannah arendt

Infiniti documenti portati da Bettina Stangneth stanno a dimostrare la responsabile iniziativa, la fanatica volontà di Eichmann nell’apprestare tutti gli strumenti necessari alla Shoah. E’ vero, stava quasi sempre a tavolino, scriveva lettere e circolari come un impiegato qualsiasi, e mascherava gli orrori con un irreprensibile gergo burocratico (le “evacuazioni”, il “trattamento speciale”, la “soluzione finale”); ma se i camini fumavano notte e giorno con quel ritmo allucinante, era per merito di questo funzionario entusiasta del proprio lavoro, così dominato dall’ansia di toccare la mèta prima che la guerra finisse.

 

Infine, in molti casi Eichmann ha ignorato e scavalcato gli ordini ricevuti, ha perfino trasgredito alle istruzioni generali impartite verso la fine del 1944 da Himmler, ha mandato a morte della gente che, secondo gli ultimi piani concertati, poteva e doveva essere risparmiata. Era ormai la voluttà atroce di chi non vuole lasciarsi strappare la preda ancora viva. Come ha scritto David Cesarani in un altro libro su Eichmann, “per lui gli ebrei non avevano diritto di esistere”.

 

Bettina Stangneth spiega che Eichmann, a differenza di tanti altri gerarchi nazisti, “non era interessato al lusso e alle ricchezze. La sua bramosia era per i numeri della morte”. Eichmann controllava i conti delle sue vittime e avrebbe potuto approfittarsene, come fecero tanti altri capi del nazismo.

BETTINA STANGNETHBETTINA STANGNETH

 

Invece, quando il Mossad, il servizio segreto israeliano, lo catturò in Argentina, rimase stupefatto dalla povertà e semplicità in cui viveva il capo degli Affari ebraici delle SS. Faceva l’allevatore di conigli e vestiva in maniera dimessa. “Per dirla tutta, io non mi pento di nulla”, confesserà Eichmann nelle registrazioni audio argentine prima della cattura. “Riderò quando salterò dentro la tomba al pensiero che ho ucciso cinque milioni di ebrei. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere”.

 

Prima di essere impiccato, Eichmann disse, sempre sardonico: “Ci rivedremo presto”. E’ questa la scoperta più importante di Stangneth. Che l’antisemitismo esiste. Che affascina e seduce. Che è una forma di “idealismo”. Che l’uomo della villa sul lago di Wannsee, più che un burocrate o un commesso viaggiatore, fu “l’ideologo dell’Olocausto”. Che il bene, forse, può esserebanale. Il male, invece, mai.

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