gabriele di ponto piede

PESTARE I PIEDI ALLA GENTE SBAGLIATA - È DELL'ULTRÀ LAZIALE GABRIELE DI PONTO IL PIEDE MOZZATO RITROVATO NELL'ANIENE. UN TIPINO CHE FACEVA LE RAPINE ARMATO DI MOTOSEGA, LO STESSO STRUMENTO FORSE USATO PER FARE A PEZZI IL SUO CADAVERE - LA PISTA DELLA GANG DI ALBANESI

Massimo Lugli per ''la Repubblica - edizione Roma''

 

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Depezzato. È atroce ma si dice così. Gergo da criminologi o medici legali per definire un cadavere smembrato, fatto a pezzi, seppellito, bruciato o buttato in acqua. E le indagini, quasi sempre, partono in salita soprattutto quando la vittima porta con se il segreto del suo nome. Niente identificazione, nessuna indagine come sa bene qualunque poliziotto o carabiniere appena uscito dal corso base di tecnica investigativa.

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È un’estate torrida per la sezione omicidi della Mobile, alle prese con un giallo che sembra riemergere, come uno spettro che chiede vendetta, dagli annuari dei casi più truci della nera romana. Un piede sezionato con la motosega o un’ascia, ritrovato il 12 agosto sulle rive dell’Aniene, alla confluenza col Tevere, un ultrà biancoceleste scomparso nel nulla, decine di moventi possibili, esattamente quello che ci vuole per girare a vuoto in attesa della pista giusta.

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L’assassinio di Gabriele Di Ponto, 36 anni, irriducibile della Lazio, faccia da paura, curriculum giudiziario alto quanto la Guida Monaci, è uno di quei gialli da perderci il sonno e se chi indaga può lavorare con un minimo di tranquillità è solo perché altre storie (il funerale show di Vittorio Casamonica e gli strascichi politici di Mafia Capitale) stanno calamitando l’attenzione dei media. La procura, ovviamente, indaga per omicidio e soppressione di cadavere e l’unica certezza sembra lì, nelle due imputazioni di un fascicolo senza indagati.

 

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La vittima era un tipo tosto, così tosto che l’ex suocera lo ha definito, senza un’ombra di pietas, “la persona più cattiva che abbia mai conosciuto” e che la moglie, italo tunisina, è dovuta scappare in Francia per sfuggire alle violenze dell’ex marito. Così tosto da postare su Facebook, tra le tante foto che lo ritraggono, con una faccia da rissaiolo, occhiali scuri e il corpo istoriato di tatuaggi, una frase da malavitoso doc: «I soldi servono a tutti ma non devi infamare». Traduzione, per chi non lo sapesse: vietato fare la spia. Un messaggio cifrato rivolto a qualcuno? Mistero. Ma di sicuro pochi giorni o forse poche ore più tardi dopo quell’ultimo post, Gabriele è stato ucciso.

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All’identificazione dell’ultrà la polizia è arrivata grazie ai tatuaggi inequivocabili sul moncone di gamba: «Irriducibili, SS Lazio curva Nord. Oggi è un buon giorno per morire». La rosa di una decina di supporter laziali irreperibili si è ristretta a un poker di quattro persone e il test del dna ha fatto il resto. Nessun dubbio; la vittima è lui. Resta solo da scoprire chi lo ammazzato e perché. E per adesso siamo a «caro amico...».

 

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La gamba, secondo l’autopsia, è stata tranciata con una lama affilata ma rozza. Attenzione: tra i tanti precedenti di Gabriele Di Ponto ci sono alcune rapine nella zona della Rustica messe a segno da un bandito vestito da Arlecchino (tanto per non farsi notare) che impugnava un’accetta o una sega elettrica. Un simbolo anche questo? Una sorta di sanguinosa legge del contrappasso? No, molto probabilmente si tratta di una coincidenza anche perché sezionare un cadavere per chi non è medico o macellaio e non sa come disarticolare le giunture, è un lavoro pesante, che richiede strumenti da taglialegna.

 

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Il guaio è che, tra la Rustica e San Basilio, erano in parecchi ad avere conti in sospeso con Di Ponto. L’uomo abitava ufficialmente in borgata ma frequentava da parecchio il quartiere di San Basilio dove (secondo gli investigatori) spacciava coca al dettaglio. Ultimamente (e questa sembra una soffiata di un certo peso) l’ultrà avrebbe pestato i piedi a una gang di albanesi.

 

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La mala di Tirana non scherza, gente di coltello o di pistola ma che, di solito, va per le spicce: un colpo in testa, una pugnalata alla gola o al cuore e via. Il rituale di sezionare il cadavere e farlo sparire, quasi sempre, tradisce una componente emotiva, passionale, come se infierire sulla vittima e farla a pezzi fosse un gesto di estremo disprezzo, l’ultimo, terribile insulto. La cronaca nera ricorda pochi casi simili, che gran parte degli investigatori non ha mai neanche sentito nominare.

 

Il mostro del Tevere per antonomasia era quel Vincenzo Teti che la notte del 21 luglio del 69, mentre l’Italia intera stava incollata alla tivù a guardare lo sbarco sulla luna, assassinò e fece a pezzi una prostituta, Teresa Poidomani e il marito Lovaglio Graziano. Teti non si curò neanche di nascondere le tracce: la sua baracca sembrava un mattatoio. Arrestato e condannato, giurò per anni sulla sua innocenza e confessò inaspettatamente negli anni 70 al giornale dei detenuti, “Lo scalino”.

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Ancora più in là negli anni, dal 1929 al 1932, gli omicidi del serial killer Cesare Serviatti: tre donne attirate con annunci matrimoniali, uccise, rapinate e fatte a pezzi. Alla condanna a morte si radunò una folla. E ancora: la raccapricciante saga di Pietro De Negri, “er Canaro” della Magliana che il 18 febbraio 88 torturò per sei ore e sezionò meticolosamente l’ex pugile Giancarlo Ricci ex complice, ex amico e sadico aguzzino che lo derubava, lo sfotteva, lo picchiava e lo umiliava in mille modi: un gran guignol che sembrava ricalcato sul racconto di Edgar Allan Poe “La botte di ammontillado” dove però il persecutore veniva murato vivo ma, almeno, tutto intero.

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L’ultimo caso di cadavere smembrato è di pessimo auspicio: a marzo del 2011 sull’Ardeatina, non distante dal Divino Amore, fu ritrovato il tronco eviscerato e sezionato di una donna sulla trentina, caucasica, quasi sicuramente slava, fumatrice. Note caratteristiche: la testa non fu mai ritrovata, la vittima resta ancora senza nome e il giallo, a meno di un miracolo, è destinato a restare senza colpevole. Niente nome niente inchiesta, appunto.

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Per l’indagine sulla morte di Gabriele Di Ponto c’è parecchio di più. Forse troppo, considerando che dieci piste possibili significano nessuna pista. Il medico legale assicura che l’uomo, al contrario di Giancarlo Ricci, è stato prima ucciso e poi fatto a pezzi. Non una lenta tortura, insomma ma un modo brutale e spicciativo per liberarsi di un corpo. E allora perché il resto del cadavere non si trova? Possibile che i resti siano stati sparpagliati in zone diverse? Anche stavolta, per venirne a capo, ci vorrà un colpo di fortuna. O magari un miracolo.

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