SUMO GENTE DE’ BORGATA - I BOSS DELLA YAKUZA HANNO MESSO LE MANI SUL SUMO E OCCUPANO TUTTE LE PRIME FILE DEGLI INCONTRI PIÙ IMPORTANTI - E’ UN MODO PER FAR SAPERE AI GIAPPONESI INCOLLATI ALLA TV CHE SONO LORO I PADRONI DELLO SPORT NAZIONALE (ANCHE CON LE SCOMMESSE CLANDESTINE)

In diverse occasioni campioni milionari di Sumo sono stati colti in un vorticoso giro di scommesse clandestine - E naturalmente, dove scorre il danaro, si abbevera la yakuza, l'onnipresente e onnipotente organizzazione mafiosa del Giappone… -

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Silvio Piersanti per Il Venerdì- www.repubblica.it

 

Il popolo più longevo del mondo grazie ad una dieta povera di grassi, adora lottatori che vanno spesso incontro a morti premature a causa di un'insana dieta ingrassante, indispensabile per raggiungere le pachidermiche dimensioni richieste nel più antico sport del Giappone: il sumo. Uno dei tanti aspetti contraddittori di una civiltà di cui continua a sfuggirci la piena comprensione.

 

lottatori di sumo lottatori di sumo

La venerazione dei giapponesi per i campioni di sumo è da intendersi anche in senso letterale, perché la tradizione vuole che nel corpo dei grandi campioni alberghi un dio fino a che l'atleta non ritenga più opportuno e dignitoso ritirarsi. Solo allora il sacro inquilino lascerà il corpo del suo protetto. Ma se l'ex atleta decide di intraprendere la carriera di capo-scuderia, il dio tornerà istantaneamente nella sua colossale struttura per aiutarlo a condurre i suoi uomini al successo nell'intensa attività agonistica che vede impegnati ogni anno i migliori elementi delle oltre 50 heya (famiglie-scuole-scuderie) in cui si suddividono i lottatori professionisti.

 

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Le origini del sumo si fanno risalire al VI secolo dopo Cristo. Costumi, rituali, regole di comportamento scaturiscono dalla religione shinto, in cui si venerano circa otto milioni di dei. I lottatori, chiamati rikishi o sumotori, sono classificati in diverse categorie. La più elevata è la Makuuchi. I primi tornei di sumo per professionisti furono organizzati a Edo, oggi Tokyo, a cominciare dal 1623. Oggi sono sei i grandi tornei annuali: tre a Tokyo, gli altri a Osaka, Nagoya e Fukuoka.

 

Ogni torneo (basho, che vuol dire luogo) inizia di domenica e dura due settimane. Ogni giorno ciascun lottatore incontra un avversario diverso. Negli ultimi anni molti stranieri (mongoli, russi, hawaiani, bulgari, rumeni) hanno fatto irruzione con sorprendenti successi nel sumo, amareggiando non poco i fan giapponesi. Forse è da considerare una sorta di barriera divisoria tra i campioni nipponici e quelli stranieri la circoncisione a cui si dice debbano obbligatoriamente sottoporsi questi ultimi.

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Attualmente, la scena è dominata dal mongolo Hakuho Sho, yokozuna (che vuol dire «ampia corda», perché il massimo campione entra sul ring portando una grande corda di canapa) dal 2007. Dietro di lui, sono in lotta per il secondo e terzo posto due suoi compatrioti: Asashoryu e Harumafuji. A tenere alto l'onore dei rishiki giapponesi, almeno nel ricordo, è Akebono, yokozuna dal 1993 al 2011, uno dei più grandi di tutti i tempi. Sumo vuol dire strattonarsi.

 

E gli atleti, in apparenza niente affatto preoccupati dalla stazza degli avversari che può sfiorare o eccedere i 200 chili, non si fanno pregare. Si afferrano per il caratteristico e necessariamente robusto perizoma (detto mawashi), unico loro indumento in combattimento, e si sbatacchiano di qua e di là, in giù e persino in su, in un balenio di lardo e muscoli, con esplosioni di incontenibile forza con raffiche di violente manate da uccidere un montone. I colpi proibiti sono: infierire con le dita negli occhi dell'avversario, tirare i lunghi capelli raccolti in una sofisticata crocchia chiamata Oi-cho mage (che viene solennemente recisa a fine carriera), sferrare calci al petto e allo stomaco, assestare colpi al basso ventre, piegare all'indietro le dita, colpire con il pugno chiuso, denudare l'avversario.

 

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Quest'ultima proibizione è relativamente recente e si ritiene che sia stata adottata in segno di rispetto dell'etica occidentale. Infatti sino al 1913 i rishiki si affrontavano in totale nudità. Ogni infrazione viene punita con la squalifica immediata.L'incontro di sumo si svolge in un unico «round» all'interno di un cerchio di paglia (dohyo) con un diametro di circa 4,5 metri delineato in un quadrato di sabbia e terra sopraelevato di circa mezzo metro, circondato dalle tribune degli spettatori.

 

Nel cerchio vi sono due linee davanti alle quali si fronteggiano accosciati i rikishi, pronti allo scontro. Che può durare anche pochi secondi. La vittoria può arridere in due modi: facendo toccare per terra una parte qualsiasi del corpo dell'avversario, escluse le piante dei piedi, o spingendo l'avversario fuori dal cerchio. Non sono rare le vittorie ottenute sollevando l'avversario e proiettandolo fuori dal dohyo. Per questa ragione, le prime file sono considerate pericolose e non adatte alle donne. In ogni caso, gli organizzatori dei tornei chiariscono per iscritto che nessun spettatore ha diritto a qualsivoglia risarcimento se subisce danni fisici per collisioni con gli atleti scaraventati fuori dal ring.

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Si arriva al momento dello scontro al termine di un lungo preludio che vede l'arbitro al centro del ring presentare con voce stentorea e solenne uno per uno tutti i concorrenti, invitandoli a schierarsi in circolo attorno al dohyo, rivolti verso il pubblico plaudente. Nelle tribune non mancano le signore vestite di serici kimono e ragazze in ruvidi jeans. Queste ultime spesso lanciano gridolini isterici quando ritengono di essere riuscite ad avere una fulminea visione del pene di un lottatore il cui perizoma si è spostato leggermente nelle agitate fasi del combattimento. Si favoleggia che il membro sia proporzionato al corpo, cioè sproporzionato.

 

Le mosse (kimarite) del sumo, sono per antica tradizione 48. Si dividono in mosse di spinta, di traino, di proiezione e di sollevamento. Vedere un lottatore di circa duecento chili sollevare un pari peso e gettarlo fuori del ring come un sacco di patate, lascia senza fiato. Specialmente se il malcapitato perdente atterra con grande sconquasso a pochi centimetri dai piedi dello spettatore a cui un inflessibile bagarino ha sfilato 300 euro per un posto-ring.

 

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L'incontro è diretto da un arbitro interno, detto gyoji, e da diversi giudici laterali seduti su sedie a bordo-ring. Normalmente non ci sono dubbi su chi sia il vincitore, ma nei casi controversi i giudici laterali salgono sul ring e confabulano con l'arbitro interno fino a raggiungere un accordo unanime, senza il quale si deve ripetere l'incontro, perché il pareggio non esiste.

 

Una mossa preparatoria dell'incontro è lo shiko: l'alzata di una gamba tesa fino a superare la testa e fatta ricadere con grande tonfo. Gli spettatori gridano «yoi-sho», sincronizzando «yoi» con il sollevamento della gamba e «sho» con il fragoroso ritorno dell'arto sul doyo. Sono parole intraducibili di incitamento alla lotta.

 

Prima di slanciarsi l'un contro l'altro i contendenti si studiano per un massimo di quattro minuti, accovacciati, fissandosi negli occhi e cercando di scoraggiare l'avversario con un'espressione di forza. I lottatori fingono di essere sul punto di balzare contro l'avversario, e invece si rialzano, fanno qualche passo come per rilassarsi, spargono una manciata di sale anti-iettatorio e si riaccucciano al loro posto pronti all'attacco: tecniche per innervosire e disorientare l'avversario.

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Allo spettatore non giapponese può sfuggire l'attimo dello scatto che, spesso, coincide con la durata dell'incontro. Un buon consiglio per evitare questo sconcerto è di non perdere di vista i piedi dell'arbitro: finché sono paralleli si può star tranquilli che i contendenti sono in fase di studio, ma non appena l'arbitro avanza il piede sinistro, scatta l'attacco. È come se spingesse un bottone di comando. Da segni invisibili a noi spettatori, l'arbitro «sa» che il momento dello scontro è arrivato.

 

L'arbitro interno veste un variopinto costume lungo fino alle caviglie, direttamente derivato dagli antichi paramenti dei preti shintoisti, indumento ingombrante ma che non gli impedisce di schivare con abilità e movenze aggraziate le moli sobbalzanti dei contendenti senza smettere di incitarli alla lotta con grida stridule, sempre agitando freneticamene un ventaglio. Il colore del ventaglio indica il rango dell'arbitro. Il massimo livello è tate gyoji (arbitro-capo) con ventaglio viola, o viola e bianco.

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La categoria immediatamente inferiore (San-Yaku) ha il ventaglio rosso. Solo un tate gyoji può arbitrare un incontro in cui combatte uno yokozuna, un campione che ha vinto una serie di incontri ad alto livello, che non può essere retrocesso di categoria, ma se vince meno di otto incontri in un torneo, il codice etico del sumo richiede che abbandoni di sua volontà l'attività agonistica.

 

Un campione di sumo è su un gradino medio-alto nella scala sociale giapponese. Se una ragazza annuncia di essere stata chiesta in sposa da un sumotori, è festa grande nella famiglia: benessere materiale e rispetto sociale sono assicurati. Non ci si aspetta nulla di più da un matrimonio. Un figlio, forse. Amore? Roba da manga.

 

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Emergere nel sumo professionistico è molto difficile. La vita dei giovani nelle heya è durissima, con frequenti punte di sadico bullismo. Le reclute sono al servizio totale dei campioni. Debbono cucinargli gli speciali pasti ingrassanti e fortificanti della dieta chankonabe, sbrigare tutti i lavori domestici, fare da sparring partner negli allenamenti, il che vuol dire rassegnarsi a ricevere in silenzio terrificanti gragnole di colpi e dover poi esprimere anche sentimenti di gratitudine per la lezione ricevuta.

 

In un ambiente totalmente maschile, succede anche che i giovani siano indotti a prestazioni sessuali. Qualche anno fa un allievo fu ucciso da due lottatori per aver respinto le loro proposte. La dieta è basata principalmente su pantagrueliche porzioni di un pastone di verdure, tofu, noodles e carne di pollo. E perché non di manzo? Perché l'animale ha tutte e quattro le zampe a terra, una posizione troppo simile a quella del lottatore sconfitto. Insomma, porta sfiga.

 

Ogni torneo termina con la tradizionale danza con l'arco. Un allievo fa roteare con maestria l'arco al centro del doyo lungo il cui perimetro sono schierati tutti i lottatori del torneo con variopinti grembiuli da cerimonia. L'arco era il premio assegnato ai vincitori di un torneo nell'antichità. Oggi non è che un simbolo perché ai vincitori spettano «pesanti» borse offerte dagli sponsor e stipendi mensili faraonici assicurati dalle heya.

incontro di sumo incontro di sumo

 

Al termine di ogni incontro, l'arbitro consegna nelle mani del vincitore una busta con il premio in danaro offerto dallo sponsor. Anche i campioni di sumo, nonostante il dio che li abita, non sfuggono alla bramosia di accumulare ricchezze sempre maggiori, a costo di violare la legge. In diverse occasioni campioni milionari sono stati colti in un vorticoso giro di scommesse clandestine. E naturalmente, dove scorre il danaro, si abbevera la yakuza, l'onnipresente e onnipotente organizzazione mafiosa del Giappone.

 

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Recentemente, sapendo che le primissime file della platea sono sempre riservate agli sponsor perché sono inevitabilmente inquadrate per ore dalle telecamere della Nhk (la televisione di Stato che trasmette in diretta tutti i tornei), la yakuza ha ottenuto che fossero tutte assegnate ai propri boss. Un modo esplicito per dire al Paese: «Gli sponsor del sumo adesso siamo noi». Nuvole nere si addensano su tutti i dohyo del Giappone.

 

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