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IL VERO VOLTO DELLE “FASHION VICTIM” - COSTRETTE A LAVORARE ANCHE VENTI ORE AL GIORNO, PRIVATE DELLA LIBERTÀ DI MOVIMENTO E DI COMUNICARE COL MONDO ESTERNO, PAGATE CON POCHI SPICCIOLI PER LE ESIGENZE QUOTIDIANE: SONO LE GIOVANI DONNE DEL TAMIL NADU, IN INDIA, CHE LAVORANO NELL'INDUSTRIA CHE PRODUCE FILATI PER LE CATENE DI FAST FASHION…

Gioia Giudici per "www.ansa.it"

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Costrette a turni estenuanti, anche di venti ore al giorno, private della libertà di movimento e di comunicare col mondo esterno, pagate non con uno stipendio mensile, ma con una modesta somma di denaro per le esigenze quotidiane: sono le giovani donne del Tamil Nadu, nell'India meridionale, che lavorano nell'industria tessile locale, che produce filati per le catene di fast fashion.

 

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Le loro storie sono raccontate nel documentario 'Fashion victims' firmato da Chiara Cattaneo e Alessandro Brasile, in anteprima al Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina, il 28 marzo a Milano.

 

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Chiara e Alessandro non sono documentaristi, ma entrambi si sono ritrovati a lavorare sulla filiera tessile indiana: lui, fotografo, aveva scattato alcuni servizi insieme a delle ong locali, mentre lei da 10 anni si occupa di cooperazione nel tessile in quella zona.

 

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Sono state le ong presenti nella zona a chiedere loro di far conoscere questa storia, di cui si sa poco, perché "i sistemi di certificazione - raccontano - si concentrano o nella fase iniziale della filiera come la coltivazione o su quella finale del confezionamento, che sono le più tracciabili, mentre quello della filatura è un segmento complesso dal punto di vista logistico, difficile da tracciare, che ci è sembrato interessante raccontare".

 

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Ascoltando le ragazze che hanno lavorato nelle fabbriche e le organizzazioni che offrono loro supporto, Chiara e Alessandro si sono resi conto che "essendo un segmento inesplorato è come se ci fosse mano libera per uno sfruttamento che, anche se non a livello giuridico, rasenta condizioni di schiavitù". "Era come stare in prigione, dalla fabbrica non ci si licenzia, si scappa" ha raccontato una delle ragazze intervistate.

 

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Le giovani e giovanissime che lavorano nella fabbriche spesso provengono da zone povere e rurali, dove non ci sono fonti di reddito alternative né per loro né per le loro famiglie, anche a causa del persistente declino dell'agricoltura. È in questi villaggi che i "broker", agendo da intermediari tra le aziende alla ricerca di una manodopera numerosa e docile e una popolazione locale sempre più disperata, ogni anno reclutano migliaia di giovanissime.

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Le ragazze vengono portate nelle aziende, dove oltre a lavorare, sono costrette anche a vivere, negli ostelli annessi alle fabbriche - anche se spesso né loro né le loro famiglie e persino alcuni broker sono a conoscenza di questo.

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Vengono assunte attraverso schemi di reclutamento e sfruttamento come lo 'Sumangali scheme', per il quale devono lavorare da tre a cinque anni e, solo al termine del periodo stabilito, dovrebbero ricevere il pagamento cumulativo di quanto guadagnato. Cifre che vanno dai cinquecento agli ottocento euro e che sognano di usare come dote per il proprio matrimonio.

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"E non sempre succede: in uno dei miei viaggi - racconta Brasile - ho incontrato una ragazza che mi ha detto che dopo 4 anni la fabbrica non le ha pagato nulla, dicendole che il suo lavoro era illegale, ma che se voleva la avrebbero assunta". Ma c'è di peggio: "una ragazzina di 16 anni dopo 4 mesi di lavoro ha avuto un ictus perché lavorava 16 ore al giorno e, con questi ritmi, gli incidenti sono all'ordine del giorno".

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C'è poi una zona grigia - aggiunge Cattaneo - fatta di sfruttamento del lavoro minorile e di abusi sessuali, uno dei quali si sarebbe concluso con un omicidio, poi fatto passare per suicidio.

 

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Gli autori preferiscono però non indugiare sui casi più gravi perché "l'intento del documentario - sottolineano - non è solo quello di denunciare lo sfruttamento dei lavoratori ma di stimolare una riflessione più approfondita: non sono gli indiani che sfruttano le operaie, è il sistema del fast fashion che così non funziona, né per chi ci lavora né tantomeno per l'ambiente e per i consumatori".

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