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CALIFFO CHI? NEI RISTORANTI DI NEW YORK NESSUNO DISCUTE DEI JIHADISTI E DI TESTE MOZZATE. I RADIO TALK SHOW DI QUEENS E BROOKLYN NON PARLANO DELL’ISIS E NELLE STAZIONI DELLA METRO NON CI SONO IN BELLA VISTA LE SQUADRE ANTI-TERRORISMO

Maurizio Molinari per “La Stampa”

 

STRAGE TUNISIASTRAGE TUNISIA

Arrivare a New York da Gerusalemme significa scoprire che l’America si sente lontana, estranea, alla guerra in atto contro l’Isis del Califfo al-Baghdadi, che si svolge nel mondo arabo e investe l’Europa. Nei diner di Midtown non si discute dei jihadisti, i radio talk show di Queens e Brooklyn non parlano di Isis, nelle stazioni della metro di Times Square non ci sono in bella vista le squadre anti-terrorismo, nelle cene fra amici si discute dell’Internet super-veloce «5G» e di «Via» - la nuova application per il carsharing che fa concorrenza a Uber - e il riferimento più frequente alla guerra al terrorismo è l’orgoglio dilagante per la riapertura di Greenwich Street, l’ultimo lembo dell’ex Ground Zero riaperto al traffico.

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Nella città che l’11 settembre 2001 venne attaccata da Al Qaeda innescando la risposta militare dell’Occidente contro i jihadisti di Osama bin Laden, i tagliateste del Califfo del terrore sono pressoché degli sconosciuti. Per chi viene dal Medio Oriente significa immergersi d’improvviso in un mondo freddo, distante, distratto. 

Se 14 anni fa New York era la frontiera più avanzata della risposta ai terroristi, ora è una lontanissima retrovia. Nella Hamra di Beirut il timore per l’arrivo dei jihadisti è incombente, nello shuk del Cairo la polizia ispeziona ogni sospetto - oggetto o persona - ad Amman le bandiere del Califfo si affacciano in periferia, a Gaza i leader di Hamas devono difendersi dalla competizione salafita, a Rabat si istruiscono imam anti-Isis e i soldati israeliani sono, sul Golan, a 30 metri dalle bandiere nere di Al-Nusra, emanazione di Al Qaeda.

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Ma nei think thank di New York prevale l’attenzione per le aggressioni strategiche di Vladimir Putin e gli interessi globali di Pechino, sui grandi media si discute svogliatamente di Hillary e Jeb Bush in vista del 2016, nei salotti di Central Park West il protagonista è il ceo di Alibaba, Jack Ma, che ha investito 23 milioni di dollari sulle montagne newyorkesi dell’Adirondacks, e i reporter arabi accreditati all’Onu chiedono notizie sui propri Paesi di provenienza come se si trattasse di un altro Pianeta. 

Quando ci si imbatte in analisti ed esperti di terrorismo che affrontano la questione del Califfo partendo dalla disputa sulla scrittura dell’acronimo «Isis o Isil» si tasta con mano la distanza siderale da un mondo distante meno di 10 ore di aereo dove tutti sanno che il nome dei barbari è «Daesh» e la discussione è su cosa fare: difendersi, sottomettersi o fuggire. 

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Ciò che conta per i newyorkesi sono le polemiche sul sindaco Bill de Blasio, la rinascita di Roosevelt Island, i gioielli digitali e una nuova stagione di diritti dell’individuo, dalla legalizzazione delle nozze gay alla lotta senza quartiere ai residui del segregazionismo. Ecco perché l’America non sente proprio il conflitto con i jihadisti, a differenza non solo del Medio Oriente e del Maghreb dove è in corso ma anche dell’Europa, divenuta la nuova frontiera sulla guerra. 

Ciò che più impressiona è Times Square. Paragonandola a Piazza San Pietro, Trafalgar Square o Place de la Republique dà il segno di un rovesciamento della Storia rispetto all’11 settembre. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, per oltre dieci anni, il cuore di Manhattan è stato la cartina tornasole della difesa collettiva dal terrorismo: cartelli con avvisi «se vedi qualcosa, dì qualcosa», i super-poliziotti «Hercules» con speciali blindature, agenti ovunque e soprattutto i passanti, le persone comuni, protagoniste di un’allerta costante nell’intento di scorgere possibili minacce. 

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Ora tutto ciò sembra archiviato, con il ritorno ad un’apparente normalità mentre è divenuto vero nelle piazze delle maggiori città europee, dove prevale allarme e timore per i jihadisti di Isis che operano, reclutano, si aggirano e progettano stragi efferate. Tali minacce restano vere anche per gli Stati Uniti, come i jihadisti del Minnesota dimostrano, ma è un tema per gruppi ristretti di super-esperti.

 Il risultato è un Occidente a parti invertite rispetto all’11 settembre: se contro Osama bin Laden era l’America a sentirsi in prima linea contro Al Qaeda, ora lo è l’Europa contro il Califfo. Nulla da sorprendersi dunque se Casa Bianca e Pentagono sono protagoniste di scelte oscillanti e contradditorie contro Isis: rappresentano ed esprimono un Paese che non percepisce la guerra. Tocca dunque ai leader europei assumersi la responsabilità di guidare l’Occidente in questa nuova fase di sfida ai jihadisti.

 

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