DIVIDI E IMPERA - LA CURIA TREMA IN ATTESA DELLA “RIVOLUZIONE D'OTTOBRE” DI BERGOGLIO

Paolo Rodari per "la Repubblica"

Dopo ogni conclave è fisiologico un lasso di tempo nel quale la curia romana è chiamata a prendere le misure con il nuovo eletto al soglio di Pietro. Questi propone e impone nuovi stili, e adeguarsi non è semplice.

Un pò come avvenne dopo la morte di Pio XII, il Papa che - parole che gli sono state attribuite - «non voleva collaboratori ma esecutori». Allora i familiari della corte pontificia si videro interdetti persino l'ingresso in Vaticano. A conti fatti, si tratta del medesimo smarrimento che ha colpito alcuni filoni della curia romana dopo l'11 febbario, il giorno della rinuncia di Benedetto XVI. «Non è facile - ha detto recentemente non a caso Francesco all'amico giornalista Jorge Milia - qui ci sono molti "padroni" del Papa e con molta anzianità di servizio».

La curia ogni giorno deve fare i conti con la "novità Francesco". Con lui, infatti, è sempre un nuovo inizio. Sono anzitutto le messe a Santa Marta di prima mattina
a destabilizzare la routine di una corte secolare, soprattutto dei sui rami più conservatori e tradizionalisti. È qui che il Papa dice a braccio ciò che pensa, spesso riferendosi proprio alla vita interna del Vaticano. Ma le parole non vengono fuori dal nulla. Bensì da più di un'ora di dialogo silenzioso e riservato con Dio.

Nessuno può intromettersi in questo dialogo. Nessuno può dettare al Papa le parole che Dio gli suggerisce. La parola divina è spada e non risponde a logiche politiche o di potere. E, di conseguenza, sempre più spesso ciò che dice Francesco diventa una lama conficcata nella carne viva di una curia abituata ad agi e privilegi. Dopo ogni omelia spetta all'Osservatore Romano e alla Radio Vaticana farne un resoconto. Ma le difficoltà sono evidenti. Ad esempio, l'esplicito accenno allo Ior che Francesco ha fatto nella sua omelia del 24 aprile - «Lo Ior è necessario ma fino a un certo punto», aveva detto - il quotidiano vaticano non lo ha riportato.

Non è facile per gli "officiali" tenere il passo di Francesco. Anche perché sullo sfondo incombe la volontà di pulizia, di riforma. Si dice che in seguito a Vatileaks presto vi saranno rami secchi, uomini da cambiare, strutture da chiudere. Anche se molto, a onor del vero, già sta avvenendo, con gli scossoni che hanno travolto i vertici dello Ior (costringendo alle dimissioni il direttore generale e il suo vice) e che promettono nelle prossime settimane d'investire anche gli altri dicasteri con competenze finanziarie.

Certo, non si può generalizzare. Oltre il Tevere, sono in molti a invitare alla prudenza. Come Hegel parlò della «notte in cui tutte le vacche sono nere» per significare una speculazione incapace di cogliere la complessità del reale, allo stesso modo si deve ricordare che seppure la curia nella buia notte che sta seguendo i mesi di Vatileaks e la clamorosa rinuncia di Ratzinger, sembri tutta uguale, non è così. Non tutti tremano, insomma, in attesa della grande rivoluzione d'ottobre. Soltanto alcuni.

Questi stanno in silenzio, quasi non respirano. Trattengono il fiato in attesa che
Francesco decida di loro. Già, perché la "Relatio" su Vatileaks redatta dai cardinali Julián Herranz, Josef Tomko e Salvatore De Giorgi sembra che proprio di loro parli. Non di altri. Chi sono esattamente? Difficile rispondere. La "Relatio" è top secret. E anche Francesco su di essa mantiene il riserbo. Seppure, a volte, picchi duro: «In Vaticano - ha detto un mese fa - esiste una lobby gay». Egli, insomma, conosce chi ha remato contro, sa nomi e cognomi e dice che fanno parte di una lobby, persone accomunate dalla medesima tendenza sessuale. Uomini capaci, evidentemente, di ricattare chi è cascato nella loro trappola.

La lobby ha usato il Vaticano per fare carriera, e anche per ostacolare le carriere altrui. Tanti i casi illustri. Anche recenti. Difficile enumerarli tutti. Su cardinali in procinto di arrivare in importanti incarichi venne fatta girare la voce che nei loro Paesi d'origine avevano coperto casi di pedofilia. Altri vennero fermati nel nome di una loro presunta linea teologica troppo "progressista" e tendente a negare addirittura la risurrezione di Cristo: «Nega che la risurrezione di Cristo è un fatto storico », dissero ad esempio del cardinale Gianfranco Ravasi.

Il quale però, stimato da Ratzinger, ha avuto il posto che la sua statura merita. Su una presunta e inesistente grave malattia puntarono invece quando presidente della Conferenza episcopale italiana dopo Camillo Ruini poteva diventare Angelo Scola. E ancora, per anni, il cardinale Walter Kasper dovette subire le arringhe di chi vedeva nelle sue aperture ecumeniche un tradimento del primato petrino. E come lui tanti altri.
Ratzinger sapeva? Probabilmente sì.

E quando si è accorto che la misura era colma, ha deciso di rinunciare al pontificato mettere così in campo l'azione di governo più potente del suo ministero. La maggior parte dei cardinali elettori ha capito che occorreva seguirlo, e dunque reagire, e chiamare al soglio di Pietro un cardinale proveniente da un Paese «ai confini del mondo», e chiedere a lui di assestare il colpo definitivo a una lobby che ha fatto il bello e cattivo tempo anche gestendo a piacere i canali finanziari vaticani.

Francesco ha spiazzato tutti istituendo una Commissione di cardinali esterna alla curia, con la sola eccezione del curiale (ma di formazione diplomatica) Giuseppe Bertello, con compiti di riforma e di governo. Si dice che questi otto prelati fossero amici da tempo. Un'amicizia accomunata dalla volontà di salvare Roma, il centro della cristianità, dalle grinfie di pochi corrotti e arrivisti. Con loro altri amici fidati: l'arciprete di santa Maria Maggiore Santos Abril y Castello e l'emerito della Congregazione del Clero Claudio Hummes.

Francesco ritiene che redenzione e pentimento siano possibili per tutti. Per questo è azzardato fare previsioni su quali curiali verranno spostati, dimessi, pensionati. Può anche darsi che qualcuno della lobby resti al suo posto, nel nome di una volontà di espiazione e di pentimento reale. Ciò che conta è altro. È il fatto che la lobby non possa più operare e agire come gruppo, come enclave dalla volontà distruttiva.

L'istituzione della Commissione degli otto ha in qualche misura svuotato di senso molte delle stanze della vecchia curia. E in futuro lo svuotamento potrà essere maggiore, come confermano le parole che nei giorni scorsi il capo della Commissione, Oscar Rodrìguez Maradiaga, ha detto alla rivista Il Regno: «Serve maggiore collegialità».

Francesco ha affrontato il nocciolo malato della curia da lontano, anche disertando i luoghi in cui esso era solito incontrarsi e alimentare il proprio potere. Insomma, di sedie vuote come quella per il concerto nell'Aula Paolo VI, Francesco ne ha lasciate tante. Gli strappi sono continui. E colpiscono al cuore i gruppi più conservatori d'Oltretevere. A coloro che per anni nell'era Ratzinger hanno spinto per portare agli onori degli altari insieme a Karol Wojtyla anche Pio XII, l'ultimo papa preconciliare, egli ha risposto canonizzando Giovanni XXIII derogando al miracolo secondo la formula "ex certa scientia".

Certo, non è escluso che la causa di Pio XII sotto Francesco non possa subire comunque un'accelerazione. Ma non ora. Prima c'è da far respirare il Concilio in sé. «Perché lei parla poco del Concilio?», hanno chiesto recentemente al Papa. E lui: «Citarlo è inutile. Lo addita ai suoi nemici. Il Concilio basta farlo». Bergoglio non ha seguito lo schema applicato da Wojtyla nel 2000 quando, per placare le polemiche seguite all'annuncio della beatificazione di Pio IX, l'ultimo papa re, beatificò con lui Roncalli.

Piuttosto ha deciso di derogare all'obbligo del secondo miracolo per marcare ancora più nettamente la propria paternità nella canonizzazione di Giovanni XXIII. Un modo per dire: «Questa è la figura alla quale mi ispiro ». E, insieme, un modo per ricordare che il problema non è l'ermeneutica del Concilio, ma l'attuazione completa delle sue costituzioni.

La lontananza dai circoli tradizionalisti trova svariate conferme, inclusa la clamorosa decisione di non nominare più nuovi gentiluomini di Sua Santità e di alleggerire il cerimoniale in occasione delle visite dei capi di Stato. Compreso il "consiglio" al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di non indossare il frac d'ordinanza in segno di vicinanza al nuovo stile contrario alla pompa pontificia.

Un certo smarrimento è anche fuori le mura leonine, ad esempio in quella Conferenza episcopale italiana che la sera dell'elezione si complimentò «per l'elezione di Angelo Scola». Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per richiudere le finestre dei palazzi della nobiltà nera come accadde dopo Porta Pia.

Nel 1870, in segno di lutto, le residenze degli aristocratici papalini furono sbarrate per testimoniare l'estraneità alla nuova epoca che si apriva. Parimenti oggi, in quei salotti, al solo sentire nominare il nuovo pontefice c'è chi s'irrigidisce per un nuovo corso giudicato eccessivamente "popolare". Ma Francesco, come Roncalli, pur provenendo da una comune radice conservatrice, si sta smarcando da appartenenze e "abbracci" che rischiano di limitarne la forza innovatrice.

 

 

 

 

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