JORGE + JORGE - QUANDO “EL CARUCHA” BERGOGLIO INVITO’ BORGES, AGNOSTICO MA NON TROPPO

Gianfranco Ravasi per il "Sole 24 Ore"

La scorsa settimana abbiamo parlato del nesso tra la musica colta argentina e i temi religiosi, cercando di intuire un eventuale legame di papa Bergoglio con la sua matrice culturale originaria. Lo abbiamo fatto ricorrendo a un capitoletto sulla musica a Buenos Aires presente nella suggestiva autobiografia del grande violinista Uto Ughi, Quel diavolo di trillo, edito da Einaudi.

Ebbene, in quello stesso volume c'è un altro capitolo dedicato agli incontri avuti dal musicista con uno dei vertici della letteratura del Novecento, il bonairense Jorge Luis Borges che proprio alla sua città aveva dedicato nel 1923 la sua prima raccolta poetica, Fervor de Buenos Aires. Ughi, per altro, evoca un testo borgesiano di chiara impronta biblica, la storia di Abele e Caino, ma riletta in chiave cristiana.

Nell'aldilà, dove ora vive col fratello che l'ha ucciso, Abele non ricorda più chi sia stato di loro due il fratricida e chi la vittima. Caino, allora, conclude: «Ora so che mi hai perdonato davvero perché dimenticare è perdonare».

Ebbene, un mese fa ho avuto l'occasione di incontrare a Roma la vedova di Borges, Maria Kodama, di origini giapponesi. Ne è nata un'amicizia, legata alla mia grande ammirazione e alla mia conoscenza delle opere del marito. Ho, così, deciso di condurre la signora da papa Bergoglio.

L'incontro, pur breve, è stato molto affettuoso e segnato dai ricordi. Maria ha portato al pontefice l'ultima edizione delle Obras completas di Borges (edizione Sudamericana, 4 volumi) e il Papa ha commentato: «Sono felice di questa iniziativa perché l'edizione precedente era piuttosto imperfetta», rivelando così di essere un lettore attento dello scrittore.

A questo punto vorrei ricostruire l'incontro di Jorge Mario Bergoglio con Jorge Luis Borges prima che lo scrittore iniziasse il suo pellegrinaggio per il mondo, astraendolo dalla tragica situazione dittatoriale argentina di quegli anni per rinchiudersi nel suo ricchissimo mondo letterario.

La ricostruzione di questo incontro è stata offerta da una giornalista di «Avvenire», Lucia Capuzzi che, nei giorni immediatamente successivi all'elezione di papa Francesco, è andata a scovare un alunno del professor Bergoglio che, nel 1965, a 29 anni, insegnava lettere nel «Colegio de la Inmaculada Concepción» di Santa Fe, un'importante città portuale argentina posta alla confluenza tra il Rio Salado e il Rio Paraná, a nord-ovest della capitale.

Ebbene, quell'allievo, Jorge Milia, ora scrittore ed editorialista, ha evocato alla giornalista italiana l'originale esperimento del docente Bergoglio, soprannominato dagli studenti carucha, cioè «faccia di bambino» per la sua figura allora molto giovanile ed esile. Egli, infatti, che ne amava la scrittura, aveva invitato Borges a tenere qualche lezione ai suoi ragazzi e, a sorpresa, aveva ricevuto una risposta positiva.

E così, una mattina nella vecchia stazione di Santa Fe, Bergoglio andò ad accogliere lo scrittore che giungeva in bus da Buenos Aires. Allora Borges aveva 66 anni ed era ormai celebre perché aveva già alle spalle opere straordinarie come Finzioni, L'Aleph, L'artefice, e aveva appena pubblicato in quell'anno

L'elogio dell'ombra
Nonostante questo, aveva accettato senza esitazione l'invito di quell'oscuro gesuita, ed era rimasto a Santa Fe per un'intera settimana, integrandosi a tal punto coi giovani studenti - lui che era di carattere piuttosto spigoloso, riservato e sempre sorvegliato - da essere soprannominato «Georgito» e considerato come un compagno di classe.

Anzi, attraverso una serie di lezioni, aveva aiutato gli alunni a comporre racconti che, alla fine, essi gli consegnarono in una selezione e che Borges portò con sé a Buenos Aires. Di là scrisse al rettore del «Colegio de la Inmaculada» per ottenere il «permesso» di pubblicarli con una sua prefazione. E fu così che, col titolo Racconti originali, apparvero in quell'anno presso l'editore Maktub e furono riediti nel 2006.

Non deve stupire questo legame spontaneo tra Borges e un gesuita: il famoso scrittore, infatti, sbrigativamente classificato da se stesso come «agnostico», in realtà fu costantemente attratto dai temi teologici e in particolare dai testi sacri.

Devo confessare, da lettore appassionato e quasi integrale della sua bibliografia, di essere stato tentato in passato di condurre una ricerca sistematica proprio sulla filigrana religiosa che si intuisce nelle pagine borgesiane, a partire ad esempio da quell'emozionante rilettura di Giovanni I, 14 (tale è il titolo della poesia presente nell'Elogio dell'ombra), una sorprendente meditazione poetica sull'Incarnazione di Cristo, «L'È, il Fu e il sarà» che vive «stregato, prigioniero di un corpo e di un'umile anima».

Per non parlare poi di quei versi intitolati anch'essi evangelicamente Luca XXIII della raccolta L'artefice, ove di scena è il buon ladrone che, «nella sua fatica ultima di morire crocifisso», udì quella «voce inconcepibile / che un giorno giudicherà tutti gli esseri / e che gli promise dalla Croce terribile / il Paradiso. Nient'altro si dissero / finché venne la fine...».

Oppure, sempre con titolatura evangelica, Matteo XXV, 30 della raccolta L'altro, lo stesso, ove di scena è il giudizio finale universale, o quell'impressionante Cristo in croce, un testo crudo che rasenta la disperazione, affidato all'ultima raccolta poetica borgesiana, I congiurati (l'autore morirà nel 1986 a Ginevra).

In esso, però, c'è una significativa confessione nei confronti di Cristo: «La nera barba pende sopra il petto. / Il volto non è il volto dei pittori. / È un volto duro, ebreo. Non lo vedo / e insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra».

Questa nostalgia di Cristo lo condurrà persino, in un testo dell'Artefice intitolato dantescamente Paradiso XXXI, 108 e ricreare in modo originale un'intuizione paolina, quella del «Dio tutto in tutti» (1 Corinzi 15, 28). Borges, infatti, afferma che non abbiamo nessun ritratto autentico e sicuro di Cristo, quei lineamenti sono andati persi come in un caleidoscopio mobile.

Eppure, ecco la sua conclusione: «Forse un tratto di quel volto crocifisso si cela in ogni specchio; forse il volto morì, si cancellò, affinché Dio sia tutto in tutti». Potrei continuare a lungo in questo itinerario nella «cristologia» o nella «teologia» di Borges. Se mi si concede, vorrei in finale suggerire a chi mi ha seguito fin qui una (ri)-lettura.

Nel Manoscritto di Brodie del 1970, il decimo e penultimo racconto reca il titolo lapidario di Vangelo secondo Marco e la vicenda è ambientata in una sperduta fattoria peruviana abitata da truci e analfabeti contadini, i Gutre.

Tra loro giunge uno studente in vacanza e, durante un'inondazione che isola a lungo la fattoria, costui scopre una Bibbia in inglese. A sera legge, traducendolo per quelle persone rozze, il Vangelo di Marco, conquistando totalmente quello strano uditorio. Lascio in sospeso la finale sconvolgente che è una straordinaria dimostrazione della potenza unica, drammatica e performatrice di quel testo sacro.

 

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