NEL SILENZIO GENERALE, IN OMAGGIO ALLE VACANZE DI RE GIORGIO BANALITANO, SOLO ‘IL FATTO’ CONTINUA A SCAVARE E OGGI TROVA UN PAIO DI CARTE INTERESSANTI - FEBBRAIO ’93: NICCOLO’ AMATO (CAPO DEL DAP) SCRIVE A CONSO: “COME DI INTESA HO GIÀ AVVERTITO PARISI E LAURO E A ENTRAMBI HO MANDATO COPIA DEL DECRETO VIA FAX IN MODO CHE LO ABBIA ANCHE IL MINISTRO MANCINO” (ALLORA SAPEVA?)…

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Giuseppe Lo Bianco e Valeria Pacelli per il "Fatto quotidiano"

NICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANONICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANO

Un ritaglio di giornale dal titolo "Revocato il decreto ammazza colloqui", seguito da poche righe scritte a mano: "Caro ministro, come di intesa ho già avvertito Parisi e Lauro e a entrambi ho mandato copia del decreto via fax in modo che lo abbia anche il ministro Mancino. A Napoli, dalle prime informazioni, sembra che la reazione del personale dei due istituti sia buona. Sperando in bene, ti abbraccio con affetto. Niccolò".

Niccolo' AmatoNiccolo' Amato

Parisi è in quel momento il capo della polizia, Raffaele Lauro il suo capo di gabinetto: scritto da Niccolò Amato, a capo del Dap, l'appunto inviato nel febbraio del '93 al ministro Guardasigilli, Giovanni Conso, è allegato agli atti del processo romano sulle infiltrazioni dei "servizi" nel mondo delle carceri.

Mancino ha sempre smentito di essere stato avvertito dell'attenuazione del 41-bis nelle carceri napoletane, ma l'appunto di Amato offre una conferma cartolare ai magistrati che indagano sulla trattativa mafia-Stato. Un biglietto che assieme al carteggio allegato agli atti racconta la storia di un agente di polizia penitenziaria, Pasquale Campanello, ucciso tra i brindisi dei detenuti camorristi, mentre sullo sfondo lo Stato si accordava con la mafia.

Una storia che inizia in Campania: è l'8 febbraio 1993 quando due killer camorristi con 14 colpi di pistola cancellano, a Torrette di Mercogliano, in provincia di Avellino, la vita Campanello, in servizio a Poggioreale, dove, nel padiglione "Venezia" quella stessa sera i boss rinchiusi al 41-bis brindano con spumante all'omicidio. Un delitto "spartiacque" nella storia della "trattativa" tra Stato e mafia, che mostra, più di ogni altro evento, il doppio volto dello Stato pronto per la prima volta ad alternare ferro e pugno di concessioni carcerarie imbarazzanti.

Giovanni ConsoGiovanni Conso

Dagli atti del processo romano, infatti, salta fuori un carteggio che racconta l'atteggiamento di funzionari di polizia e ministri di fronte alla ferocia camorrista in un contesto in cui la trattativa correva sotterranea nei dialoghi tra Stato e criminalità organizzata. La scansione degli eventi parte proprio da quell'omicidio, che cade a cavallo dell'avvicendamento al ministero della Giustizia tra Claudio Martelli e Giovanni Conso, suo successore.

Subito dopo l'omicidio Campanello, Niccolò Amato piomba a Poggioreale e invia un appunto al Guardasigilli Martelli: "Essendomi recato nell'istituto di Poggioreale subito dopo il barbaro omicidio - scrive Amato - ho potuto constatare i sentimenti di costernazione e preoccupazione del personale (...) e la diffusa richiesta generale di immediati e adeguati interventi sulle cause di fondo degli attuali disagi e difficoltà dell'amministrazione penitenziaria". Così, per i detenuti al 41-bis, Amato propone di mostrare il pugno duro: riduzione dei colloqui, le telefonate, i pacchi e l'ora d'aria per i detenuti pericolosi.

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E il giorno dopo, il 9 febbraio ‘93, Martelli emette il decreto con le restrizioni. È l'ultimo decreto firmato dal ministro che si dimette tre giorni dopo: a via Arenula arriva Conso. Fuori dal carcere, intanto, la tensione sociale cresce. Il 12 febbraio si riunisce al Viminale il Comitato Nazionale per l'Ordine e la Sicurezza pubblica, Parisi e Mancino, sostiene Amato, premono per l'attenuazione del carcere duro.

Qualche giorno dopo in un documento del 17 febbraio i familiari dei detenuti chiedono che i loro parenti siano "trattati civilmente, non come carne da macello". E a questo punto arriva la svolta, cambia la politica del carcere duro: il questore di Napoli, Umberto Improta, il 20 febbraio invia un primo fax "urgentissimo" al ministero di Grazia e Giustizia proponendo di attenuare il rigore del provvedimento per "stemperare tensioni all'esterno del carcere", come si legge nel documento inviato.

La richiesta viene immediatamente accolta da Conso che revoca il decreto del 9 febbraio firmato da Martelli, facendo tuttavia eccezione per i reparti di Poggioreale denominati "Torino" e "Venezia", e per i reparti "T1" e "T2" di Secondigliano. E ne dà notizia alla stampa con un comunicato: "La decisione del ministro nasce dalla constatazione che, nel periodo di vigenza del decreto che imponeva le restrizioni generali, i detenuti hanno mantenuto un comportamento regolare".

E subito dopo arriva l'appunto scritto a mano da Niccolò Amato e inviato a Conso. Poche righe che, da come scrive Amato, anche Nicola Mancino (indagato a Palermo per falsa testimonianza nell'ambito della trattativa) avrebbe letto, tramite il suo capo di gabinetto Raffaele Lauro. Interpellato da Il Fatto, Niccolò Amato spiega: "Nel mio primo appunto ho proposto a Martelli di fare le restrizioni.

Guido ImprotaGuido Improta

Poi la revoca di Conso fu fatta non a seguito di una mia proposta. Questo biglietto autografo al ministro è la conferma che la revoca è stata fatta al di là di ogni mia volontà, e su proposta di Improta. Si tratta di un atto amichevole che io inviai a Conso per informarlo che su sua richiesta avevo mandato la revoca anche a Lauro perché non potevo inviarlo direttamente a Mancino."

Poi Amato ricorda un episodio in particolare, di cui ha parlato durante un interrogatorio anche Paolo Falco, numero due del dap in quegli anni, a Gabriele Chelazzi, pm che indagava in passato sulla Trattativa. "Falco racconta di una discussione verace tra me e Conso. Io infatti mi lamentavo quando chiedevo a Conso di applicare il 41-bis, e Conso spesso interpellava Mancino. Io ritenevo che non era di competenza del ministero dell'interno".

L'ordine pubblico è salvo, le tensioni rappresentate dal questore si allentano. In un secondo fax inviato sempre il 20 febbraio a via Arenula, Improta aveva raccontato di un incontro con i familiari dei detenuti che hanno "rappresentato un profondo stato di disagio correlato alle limitazioni poste in ambito dei rapporti tra i detenuti e i loro coniugi, evidenziando che le restrizioni colpiscono tutti i 2600 detenuti ingiustamente ritenuti oggettivamente responsabili per l'omicidio premeditato ai danni dell'agente Campanello". Del quale non sono mai stati scoperti né mandanti, né killer.

 

 

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