OSTAGGI DI UN TRIBUNALE - DOPO 35 ANNI SARANNO RIMBORSATI (DALL'AMERICA) GLI OSTAGGI DELLA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA, CHE PASSARONO 444 GIORNI PRIGIONIERI NELL'AMBASCIATA USA DI TEHERAN - 10MILA DOLLARI PER OGNI GIORNO DI CATTIVITÀ. I SOLDI VENGONO DALLA MEGA-MULTA (9,2 MILIARDI) INFLITTA A BNP-PARIBAS PER AVER FATTO AFFARI CON L'IRAN NONOSTANTE L'EMBARGO

4,4 milioni di dollari ciascuno per i 53 ostaggi che nel 1979-80 furono imprigionati nell'ambasciata da Khomeini, un atto che costò l'elezione a Carter e aprì la Casa Bianca all'improbabile Reagan - Ci sono le vedove e gli eredi dei sedici che nel frattempo sono morti...

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Vittorio Zucconi per “la Repubblica

 

Trentacinque anni, 4 milioni di dollari e il pianto di un vecchio Marines fermo sul bordo della strada hanno chiuso il dramma di Teheran che umiliò l’America e cambiò la storia della politica americana: i 53 ostaggi tenuti prigionieri per 444 giorni nell’ambasciata Usa in Iran che nel 1980 costarono la Casa Bianca a Jimmy Carter e la aprirono a Ronald Reagan e marcarono il trionfo di Khomeini, saranno rimborsati dal governo al suono di 10mila dollari per ogni giorno di cattività.

 

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Tra di loro c’è chi è scoppiato in lacrime, come il sergente in pensione dei Marines, Rodney Sickman, che era in servizio di guardia all’ambasciata il giorno dell’assalto e quando ha sentito la notizia alla radio e ha avuto la conferma che il presidente Obama aveva firmato il risarcimento, confessa di avere pianto, fermo nella corsia d’emergenza di un’autostrada del Missouri.

 

Ci sono le vedove e gli eredi dei sedici che se ne sono andati attendendo che il Congresso e la Casa Bianca riconoscessero ai prigionieri dell’Ayatollah Khomeini e dei suoi cosiddetti studenti il diritto a vedere riconosciuto il proprio sacrificio. E c’è chi, come l’addetto stampa di quell’ambasciata, Barry Rosen, rifiuta di rispondere al New York Times, proprio lui, l’uomo della comunicazione con i giornali: «Basta, ne abbiamo viste abbastanza».

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Quello che lui, l’America e il resto del mondo, videro la mattina del 4 novembre 1979, nessuno lo aveva mai visto: la profanazione di un’ambasciata e la cattura di oltre 60 funzionari e guardie da parte di una folla di giovani khomeinisti che “spontaneamente”, cioè con l’incoraggiamento e la benedizione del nuovo regime rivoluzionario islamico, avevano fatto irruzione nell’edificio. Gridavano «Morte all’America» e chiedevano la restituzione del deposto Scià Reza Palahvi, accolto negli Stati Uniti ormai allo stadio terminale del cancro che l’avrebbe ucciso.

 

Cominciò quel giorno il “Vietnam politico” della presidenza Carter, il disastro di un presidente che dopo avere solennemente giurato di fronte a una nazione dove sbocciavano milioni di nastrini gialli in segno di attesa, di riportare a casa quei concittadini, si trovò imprigionato nelle circostanze, nella propria impotenza, nella propria titubanza.

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«Devi liberarli, fai qualcosa» lo implorava la moglie Rosalynn, ricorda Carter nelle memorie. «Ma cosa? Come?» si tormentava lui.

 

«Se provo e sbaglio, uccideranno quei disgraziati uno per uno». Khomeini aveva afferrato la tigre americana per la coda e con essa giocava, liberando alcuni prigionieri afroamericani e alcune donne, affermando che «donne e neri avevano già sofferto abbastanza nelle grinfie del Grande Satana».

 

Carter provò la via della forza e fu un disastro. L’Operazione Desert One per liberare i prigionieri con un assalto notturno dal cielo spaventosamente complicato, finì tra carcasse di elicotteri e di americani carbonizzati: per giorni le tv del mondo, e quella iraniana non stop, mostrarono i rottami, irridendo all’impotenza americana.

 

Khomeini liberò i 53 prigionieri pochi minuti dopo l’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1981, appunto 35 anni or sono, in un ultimo gesto di disprezzo per l’uscente Carter. Bendati, smarriti, confusi, i sequestrati di Teheran tornarono alla vita, costretti a firmare la rinuncia a future pretese di risarcimento. Cominciò allora il secondo calvario dei 53, tra avvocati, ricorsi legali sempre respinti, petizioni alla Corte Suprema inascoltate, pressioni sul Parlamento sordo, fino al paradosso di un aiuto insperato e involontario, proprio dai loro antichi tormentatori.

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Sono stati i 9,2 miliardi di penalità inflitti alla banca francese Paribas, condannata per avere violato l’embargo, a permettere la creazione di un fondo per le vittime del terrorismo senza chiedere altri soldi pubblici. Quei fondi insperati, insieme con il trattato sul nucleare concluso con l’Iran, fattore decisivo per riaprire il libro della storia, e il successo del film “Argo” che ha riportato alla memoria di un pubblico che li aveva dimenticati quei giorni, hanno sciolto le resistenze e permesso il passaggio della legge speciale.

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Non tutti vedranno quel massimo di 4,4 milioni e certamente non subito, perchè il governo, come tutti i governi, troverà modo per dilazionare e rateizzare.

Ma il principio è affermato: chi soffre per il servizio alla nazione, deve avere un riconoscimento concreto da coloro per i quali ha patito.

 

Ci sarebbe ancora almeno un ostaggio nelle prigioni degli ayatollah, il giornalista Jason Rezaian, corrispondente del Washington Post da Teheran condannato per «spionaggio e propaganda anti- regime » a una detenzione dalla durata «non specificata». Ma per lui ancora molte lacrime dovranno scorrere.

 

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