L’ITALIA NON E’ UN PAESE PER DONNE CHE GIOCANO A CALCIO: SCARSA ATTENZIONE DEI MEDIA E PREGIUDIZI AL VELENO SULLE “4 LESBICHE” - IL CALCIO FEMMINILE, SNOBBATO NEL NOSTRO PAESE, SI PRENDE LA RIVINCITA AL MONDIALE: STADI AFFOLLATI E INCASSI RECORD

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”

CALCIO FEMMINILECALCIO FEMMINILE

L’ Italia non è un Paese per donne. Che giocano a calcio. Minuscoli trafiletti con i risultati sui quotidiani sportivi, nessuna attenzione per il mercato (eppure, udite udite, in questi giorni ben sette giocatrici del Brescia secondo in campionato, su una rosa di 18, sono corteggiate da squadre straniere: l’epicentro del movimento è la Germania con 1,2 milioni di tesserate); persino il Mondiale, che domenica manderà in campo la rivincita della finale 2011 tra Giappone e Stati Uniti, è snobbato come la polenta nel menù di Ferragosto. 

 

Certo se la nazionale guidata dal c.t. Antonio Cabrini (sì, quel Cabrini) avesse vinto lo spareggio del novembre 2014 contro l’Olanda e si fosse qualificata per Canada 2015, la settima edizione del Campionato del mondo femminile nato nel 1991 con 61 (sessantuno, avete letto bene) anni di ritardo sugli uomini, qualche riga in più su «quelle quattro lesbiche» che chiedono sempre soldi (l’orrendo copyright è dell’ex presidente della Lega nazionale dilettanti Felice Belloli, poi sfiduciato all’unanimità dal consiglio) avremmo potuto scriverla. Forse.

antonio cabrini con la nazionale femminile di calcioantonio cabrini con la nazionale femminile di calcio

 

Se il Milan non si fosse lanciato alla riconquista di Ibrahimovic, se Vidal non si fosse schiantato al volante di una Ferrari dopo una partita di Copa America, se mezza Serie A non stesse giocando a racchettoni sulla spiaggia di Formentera (fermate le rotative!), se il solito manipolo di galantuomini non avesse confessato di comprare e vendere partite come noccioline. Se, se, se... 
 

JILL SCOTT E SAKI KUMAGAI CALCIO FEMMINILE MONDIALI JILL SCOTT E SAKI KUMAGAI CALCIO FEMMINILE MONDIALI

Invece, prigioniero dei suoi stereotipi (le calciatrici sono scarse, brutte e omosessuali) e strangolato dalle sue contraddizioni (le ragazze ricadono sotto l’egida della Lega dilettanti, quindi non hanno lo status di professioniste e godono di tutele marginali), il calcio rosa in Italia continua a languire ai margini del playground dello sport, surclassato dalle pallavoliste, strapazzato dalle tenniste, affogato dalle nuotatrici, infilzato dalle schermitrici. 
 

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Ma la lezione che arriva dal Canada, cioè la risposta a livello mondiale al non edificante morso che Luis Suarez piantò sulle spalle di Giorgio Chiellini al Mondiale uomini dell’anno scorso, un cult dell’orrore, parla di 52 match sold out disputati da 24 squadre in 6 stadi festanti, di un calcio più umano, meno esasperato e quindi più godibile, di un giro d’affari di 55 milioni di euro e di 1,15 milioni di spettatori soddisfatti (124 Paesi collegati), perché evidentemente non tutte le 30 milioni di praticanti del pianeta (il 52% sono in Canada e Usa, che detengono 2,2 milioni di licenze su 4,8) sono brutte e scarse, e se mai fossero lesbiche sarebbero solo fatti loro. 
 

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«Sto seguendo da casa. Vedo un alto tasso tecnico, perché bene a calcio non sanno giocare solo i maschi. Vedo match di qualità. E vedo atlete in forma eccezionale, tirate come le pantere dell’atletica leggera, altro che certe calciatrici con la pancetta e la cellulite del nostro campionato». Martina Rosucci, 23 anni, torinese, centrocampista di sfondamento del Brescia e numero 10 dell’Italia, è una tipa sveglia. E franca. «Non ci siamo qualificate per il mondiale perché la nostra preparazione fisica non è all’altezza delle rivali europee». Essere l’ultima ruota del carro, infatti, ha i suoi svantaggi: staff tecnici di basso livello, spesso nessuna assistenza medica e fisioterapica, impianti fatiscenti, un certo tasso di improvvisazione che non fa del bene al settore. «Il campionato italiano non è allenante perché, al di là delle 3-4 squadre più forti, le altre non esistono...» spiega Martina.

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E vedere partite che finiscono 10-0, di certo non è un bello spot. Cabrini, sostenuto dai proclami del presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio (che ha imposto ai maggiori club della serie A di creare un proprio settore femminile competitivo), sta cercando di scuotere l’ambiente dal suo congenito immobilismo. Ha dotato la nazionale di un tailleur per le trasferte (anche il look vuole la sua parte anche se non vedremo mai le calciatrici in coulotte: rischierebbero di rimetterci le gambe), ha alzato lo standard dello staff medico e insegue il salto di qualità con il piglio che riservò ai tedeschi nella finale del Mundial ’82. 
 

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Ma non basta. Solo un cambio netto di mentalità, accompagnato da un taglio deciso ai retaggi e ai luoghi comuni del passato, potrebbe far uscire le nostre ragazze dal Medioevo in cui si dibattono. Sarebbe fantastico se l’effetto-Mondiale innescasse un circolo virtuoso.

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Nel calcio donne non esistono doping, scommesse, scorrettezze ai limiti del regolamento, contrasti spietati. Solo assist, fughe sulla fascia, gol e autogol. Quello del difensore Laura Bassett, che a tempo scaduto ha consegnato il biglietto per la finale al Giappone campione in carica, ha gettato nella costernazione tutta l’Inghilterra. Il profilo twitter della giocatrice, dopo un attimo di sgomento, è stato inondato di messaggi d’incoraggiamento. 
La mozione degli affetti come antidoto all’insuccesso. E poi lo chiamano sport minore. 

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