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Giancarlo Dotto per Dagospia
Basta mezz’ora. Il tempo d’infilarsi un profilattico extralarge e consumare una definitiva sevizia ai danni di chi mal capita. Questa volta la Lazio. Due azioni e due gol. La Juventus si allena in Italia per vincere in Europa.
Due scorribande di Tevez e Bonucci nello spazio, i due valori forti della squadra, aspettando che Pirlo ritrovi Pirlo (per ora è solo una flebile controfigura). La Lazio delle otto vittorie consecutive, la Lazio dei prodigi e del calcio abbagliante, si ritrova con un pugno di coriandoli stracci a spiegare che la festa è finita. Allo “Juventus Stadium” si arriva integri e si riparte a tocchi.
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Scudetto stravinto da un pezzo, ma lo squadrone zebrato (si scrive Allegri, ma si pronuncia Conte) non si ferma, non si può fermare. E’ la sua grandezza. Un paradosso genetico e concettuale. Più mangia e più ha fame. Può esistere solo a fauci spalancate. E’ anche la sua dannazione. Vivere sopra le righe. Ancora invasa dall’ossessione contiana. Mercoledì a Monaco altro pane per i suoi denti.
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La Lazio fa quello che può. Non poco. Sotto di due gol e sotto le secchiate d’acqua gioca da grande squadra e trova la forza per schiacciare la Juventus nel secondo tempo.
Sconta, alla fine, l’appetito infernale della Juve, ma anche l’assenza di De Vrij al centro e la strana scelta di Pioli di lasciare Candreva in panchina.
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Paga anche la flessione di Felipe Anderson, già intuibile nelle ultime settimane. Il rischio è che il ragazzi si ammali di fenomenite. Troppo spesso ha immaginato di poter vincere da solo. Tante palle pretese e solo palle perse. Da qui a poche ore la Roma ha l’occasione per ritrovarsi seconda e darsi pace almeno per una settimana dalle sue beghe intestine. Sarà derby da qui fino in fondo.
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