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OSVALDO ROCK’N’GOL: “IL CALCIO OGGI È UNA MERDA, LA DITTATURA DEL RISULTATO E' L'IPOCRISIA PIU' GRANDE. NON POTER USCIRE DOPO UNA SCONFITTA PER SUONARE LA CHITARRA O BERE UNA BIRRA ERA ASSURDO. HO SMESSO PER UNA SIGARETTA DI TROPPO. ORA SONO FELICE, ANCHE SE DICONO CHE SONO UN MATTO" – STILETTATE A PRANDELLI ("SI FACEVA FARE LA FORMAZIONE DAI GIORNALISTI") E ANDREAZZOLI ("NEANCHE ME LO RICORDO") - "A CHI DEDICHEREI UNA CANZONE? A ZEMAN, UN SECONDO PADRE” - VIDEO

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https://gianlucadimarzio.com/it/voce-vizi-e-felicita-osvaldo-in-italia-da-rockstar-libero-da-ipocrisie

 

 

Claudio Giambene per https://gianlucadimarzio.com

 

Una carriera interrotta a trent'anni, un'altra iniziata nel 2016. Oggi Osvaldo è il frontman dei Barrio Viejo. Siamo stati a Paganica alla prima tappa del tour italiano. E dietro al palco, ci ha raccontato la sua vita.

 

Fuggire per non nascondersi. Sembra un ossimoro, eppure non lo è. Scappare dagli stadi e dai contratti milionari. Da un sogno diventato prigione dorata. Via la maglia numero 9, via i tacchetti, basta mitraglie dopo un gol.

 

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Fuggire e rifugiarsi sopra un palco. Dove esibire passioni e talenti alternativi, dove “attaccare” non significa puntare la porta. “Sono sempre stato impulsivo e sensibile. Nel calcio non c’è spazio per la sensibilità. Ero stanco di essere un numero. Adesso vedi come sono felice?”.

 

Pablo Daniel Osvaldo ride, non sorride. È la notte del suo primo concerto in Italia. “Mi tremano più le gambe ora di quando giocavo. Quando canti la gente è più vicina, senti tutto quello che dicono”. Dai 70mila della Bombonera ai 150 del Pocoloco, piccolo pub di Paganica, frazione dell’Aquila. Il terremoto del 2009 ha lasciato cicatrici ancora evidenti, ma il tempo cura le ferite. La gente qui è abituata a ripartenze più faticose rispetto a quella di Osvaldo, ma simpatizza con chi ha voglia di ricominciare. Da qui, tra birre e waffle, sabato sera è iniziato il tour italiano dei suoi “Barrio Viejo”. Locale esaurito, ambiente rilassato.

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Comincia così la ricerca della felicità di un ragazzo del 1986 che a trent’anni ha detto addio al pallone. In fuga da “un mondo finto, dove se fai gol sei un dio e se non lo fai sei una m…a. E il calcio di oggi è come il reggaeton: una musica di m..da che però piace alla gente. È un freddo business, dove nessuno pensa a come stai ogni giorno”, si confessa al microfono di gianlucadimarzio.com.

 

Anche per questo, il suo primo album si chiama Liberaciòn. “Ho scritto tutti i testi: parlo di esperienze personali, di amore e di problemi sociali. Il rock and roll è sempre contro il potere”. Il microfono al posto del pallone e un palco grande come l’area piccola. Il Daniel frontman è libero di essere ribelle senza incorrere in sanzioni. Una sigaretta di troppo gli costò il posto nel Boca. Oggi è quasi parte del costume di scena. Nessuna bilancia giudicherà un paio di birre e fare l’alba sarà come rimanere a tirare le punizioni. 

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Essere rock significa anche questo: potersi permettere licenze che il pallone ha soffocato. Libertà di “vivere le cose semplici. Quelle della gente normale, così lontana da quella nuvola patinata del mondo del pallone”.

 

Semplicità, parola d’ordine della sua prima tappa italiana. Ingresso unico, niente camerini o cordoni di sicurezza. Daniel entra insieme ai suoi nuovi compagni di squadra. Ha un look alla Jack Sparrow e il sorriso di chi ha trovato il tesoro. Per scaldarsi, al posto dello stretching, un goccio di whisky. Sorrisi sinceri alle prime file, qualche parola con la sua band e un giro di batteria come fischio d’inizio.

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Repertorio blues, aria grunge e voce rock accompagnata – rigorosamente - da Bacco e tabacco. Alle sue spalle non ha trequartisti ma un gruppo di fantasisti argentini con bacchette e plettri. Fuori c’è la neve, proprio come 13 anni fa quando arrivò per la prima volta a Bergamo. Non l’aveva mai vista, gli venne da piangere. “Ci ho ripensato venendo qui. In quel gennaio del 2006 iniziavo una nuova vita. Adesso mi sento come il ragazzino che ero: tutto illusione e voglia di fare”.

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C’è sempre la neve negli inizi di Pablo, un po’ come nei ricordi di Verdone in Manuale d’amore. Non ha un lenzuolo bianco sotto cui nascondersi, ma un fantasma da allontanare con le note. “So che mi avete conosciuto come calciatore, ma quello è il passato. Ora sono un cantante e vogliamo farvi divertire con la nostra musica”, è la sua invocazione dal palco.

 

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All’inizio dell’altra carriera lo paragonavano a Batistuta. In questa il primo nome che viene in mente - un po’ per il look, un po’ per lo stile canoro - è Piero Pelù. Entrambi simboli di una Firenze che ancora ricorda la sua rovesciata di Torino. Era il maggio del 2008 e valse l’ingresso in Champions. Ne ha fatte altre, ovunque. Non a caso. La “bicicleta”, manifesto di una carriera vissuta sottosopra, emblema del Desòrden cantato nel singolo principale di Liberaciòn. “La mia vita è sempre stata disordinata. Nell’ambiente del calcio mi hanno sempre visto come un matto, ma non ho mai capito certe logiche. Non potere uscire dopo una sconfitta, suonare la chitarra o bere una cosa lontano da una partita. La dittatura del risultato è l’ipocrisia più grande: c’è chi ritiene Messi un fallito per non aver vinto un mondiale. Quelli sì che sono dei falliti”.

 

Vincere o perdere, nella musica, è un processo più lungo di 90 minuti. Perché l’intensità di un applauso è un gol da valutare nei download, lontano dal palco. Il rischio è non vendere, la speranza è piacere a un pubblico più vasto possibile. L’ossessione resta fuori dalla porta. “È un ambiente più tranquillo, c’è meno pressione ma non pensare che voglia cazzeggiare. Ho intrapreso questa nuova attività con professionalità e passione. M’ispiro a tanti e a nessuno. Amo i Rolling Stones e i Doors. Uno dei miei figli si chiama Morrison non a caso…”.

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"Io, il Boca e Pochettino. Nella mia testa c'è di tutto"

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Il pubblico di Paganica ha apprezzato la sua musica e un concerto lungo quasi quanto un incontro. Alla fine tutti e tutte vogliono un selfie. Pablo Daniel non si sottrae mai, anzi. Un ragazzo gli porta una maglia da autografare. È quella del Boca Juniors, stagione 2015/16. Numero 23, Osvaldo. Sorride nel vederla e forse per un momento un pizzico di nostalgia gli attraversa la testa. “Il giorno dell’esordio alla Bombonera è stato il più bello della mia vita. Segnai anche una doppietta. Che si può volere di più? Sarà sempre la mia squadra del cuore, quella con cui sono cresciuto”. In tanti si complimentano con la band. Riff e sonorità hanno superato la barriera linguistica con lo spagnolo. “In italiano ancora non riesco a scrivere. Magari un giorno farò un pezzo sul calcio. Ma solo in positivo”. Un’ispirazione potrebbe essere Pochettino, l’allenatore del Tottenham che lo ha valorizzato al massimo all’Espanyol e rivoluto a Southampton. Fino a cinque anni fa, Osvaldo era il suo Harry Kane. Dani fa un tiro di sigaretta e una smorfia disincantata. Il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere non lo sfiora. “Pochettino è un grandissimo allenatore ma nella sua testa esiste solo il calcio. Nella mia esistono tante altre cose. Non avrei mai potuto essere come mi avrebbe voluto”.

 

Potrebbe scriverne una per Zeman “che per me è stato come un padre” o per De Rossi, “uno dei miei migliori amici nel calcio insieme a Tevez e Heinze”. Oppure una per i “campioni veri con cui ho giocato: Totti, Pirlo, Buffon. Gente di un altro livello, non solo sul campo”.

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"Prandelli mi tolse un mondiale leggendo i giornali"

Più difficile che i suoi versi riguardino Andreazzoli, l’allenatore che lo escluse dal derby di coppa Italia del 26 maggio 2013. Le ultime parole che ha scritto per lui erano racchiuse in un tweet al veleno poco dopo la finale. “Ah, manco me lo ricordo Andreazzoli. Scrissi che era un incapace? Beh, non mi sembra che sia andato ad allenare la Nazionale”. Quella per un po’ l’ha allenata Prandelli, un altro che difficilmente troverà spazio in un disco. “Mi tenne fuori dal mondiale brasiliano dopo che avevo segnato tanto durante le qualificazioni. Prandelli era così, si faceva fare la formazione dai giornalisti. La stampa voleva Cassano e così mi fece fuori. Peccato, perché quel mondiale avrei meritato di giocarlo”.

 

Oggi a guidare gli azzurri c’è un altro allenatore con cui ha vissuto momenti duri all’Inter. Ma con Mancini, non sembra avere risentimenti. “Ci ho litigato come si litiga normalmente sul lavoro, ma quello scontro è stato ingigantito dalla stampa. Del resto è sempre così: vende di più una polemica che un bel rapporto”.

 

 

 

 

 

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