LA SECONDA VITA DI NAKATA: “HO LASCIATO IL CALCIO, NON GUARDO PIU’ LE PARTITE ORA GIRO IL MONDO PER LANCIARE IL SAKE’ E SOGNO DI ORGANIZZARE UNA BIENNALE D’ARTIGIANATO A TOKYO. QUANDO GIOCAVO IN ITALIA NON MI PERDEVO UN SALONE DEL MOBILE...

Il Beckham d’Asia ha lasciato il calcio a 29 anni, non ha aperto un blog, non è sui social ma ha scoperto che nella vita ci sono anche altri piaceri: l’arte, il design, la moda, i vini. "Colpa dell’Italia: qui ho imparato cosa vuol dire vivere dentro la bellezza. Andavo ai musei. E che emozione scoprire le cantine. L’ultima mia esplorazione è stata in Franciacorta”...

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nakata nakata

Alessandro Cannavò per il “Corriere della Sera”

 

A Roma lo chiamavano Nakatino. Con quel misto di sberleffo e affetto tipico dell’indole capitolina. Affetto, tanto. E chi se la dimentica tra i tifosi la sua sventola all’incrocio dei pali in quel 6 maggio 2001, nella partita che consegnò alla squadra giallorossa lo scudetto a casa della Juventus?

 

La Roma era sotto di due gol, Capello richiamò in panchina Totti e fece entrare lui, Hidetoshi Nakata, giapponesino allora 24enne dai tratti gentili e dalla tenacia collaudata. Che si inventò lo spettacolare 1-2, e poi fu determinante per il pareggio di Montella. 
 

Eppure dietro le quinte, negli spogliatoi non solo della Roma ma anche di Perugia, Parma, Fiorentina, Bologna (altre squadre in cui giocò nei suoi sette anni passati in Italia), di Nakatino si ricordano i libri in mano prima di ogni partita. «E che dovevo fare? – dice oggi in un italiano fluente -. Arrivavamo allo stadio un’ora e mezza prima della partita, leggere era un modo utile per passare il tempo. Romanzi? No, quasi sempre saggistica. Volevo essere informato sull’attualità, capire il mondo». Dall’esterno arrivavano i cori delle tifoserie e Nakata leggeva. Preparando una sorprendente uscita di scena dal calcio. 
 

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La passione è solo in campo
«Sì, me ne sono andato presto, a 29 anni. Non mi piaceva più quell’ambiente. Per me il calcio è solo uno sport da giocare. Nell’agonismo resta puro, onesto. Anche oggi scendo in campo per partite benefiche e ci metto la stessa passione di un tempo. Ma non farei mai l’allenatore, mai il dirigente sportivo. Tranne in casi eccezionali, non guardo le partite in tv. E non chiedetemi per quale squadra tenga. Perché non tifo». 
 

Nella vita ci sono anche altri piaceri. Nakata lo aveva capito. L’arte, il design, la moda, i vini. «Colpa dell’Italia: qui ho imparato cosa vuol dire vivere dentro la bellezza. Andavo ai musei, non mi perdevo un Salone del Mobile. La moda? Ho avuto sempre un debole per i vestiti». Amava i foulard, oggi li usa molto meno. «La moda quando è di qualità esprime la cultura di un paese. E che emozione scoprire le cantine. L’ultima mia esplorazione è stata in Franciacorta». 
 

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Hanno finito per soprannominarlo il Beckham dell’Asia. Ma a Nakata non bastava diventare il giocatore da copertina. «Non ho aperto un blog, non sono sui social, uso il computer solo per lavoro. Non possiedo uno smartphone: vado in giro con un vecchio Nokia».

 

Single convinto e solitario, Nakata aveva una necessità più impellente: cercare se stesso. «Quando ho lasciato il calcio mi sono messo in viaggio. Da solo. La condizione ideale per assimilare dagli altri. Ho girato in tutto il mondo, cento nazioni in tre anni. Dopo una carriera di soli hotel e stadi, volevo vedere i luoghi, parlare con le persone. Il lusso dei paesi sviluppati e la frugalità di quelli poveri, bisogna conoscerli entrambi.

 

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Certo, il calore di alcuni luoghi dell’Africa nera e dell’Asia mi ha lasciato dentro qualcosa. Ovunque mi riconoscevano non tanto perché fossi famoso io, quanto per la popolarità planetaria del calcio. Ho capito la grandezza di questo sport, la sua forza comunicativa. Mi sono detto: devo usarla per scopi benefici. Così ho creato la Take Action Foundation: interveniamo su progetti specifici lavorando con le onlus locali». 
 

Ma da globetrotter Nakata aveva un cruccio. «Mi chiedevano spesso del mio Paese e io ne sapevo poco. Spesso mi vergognavo di questa mia ignoranza. Nel 2009 decisi di scoprire a fondo il mio Giappone, in questi anni l’ho setacciato in tutte le 47 prefetture. Non il volto iper tecnologico delle città. Volevo conoscere quello della tradizione, del saper fare artigianale. Sì, mi devo impegnare per gli artigiani». 
 

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La ricchezza di 1300 produttori
Il Nakata del 2015 si presenta come ambasciatore del saké. Da oggi al 24 giugno è a Milano per una sei giorni in cui con il suo staff anima un bar, Sakenomy, dove è possibile bere le 30 migliori qualità di questa antica bevanda legata ai templi shintoisti. «Il saké è un po’ il nostro vino ma nella grande distribuzione circolano non più di 5 marche e la maggior parte della gente non ne ricorda neanche una.

 

Eppure nel Paese ci sono 1300 produttori e ognuno fa una trentina di saké diversi. La varietà del riso, la temperatura dell’acqua, il controllo del koji, il fungo utile alla fermentazione che rende il saké alcolico: tutto ne determina la differenza.

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Capite che ricchezza da valorizzare? Il mio viaggio è stato un immergermi nei tempi lenti di questo mondo, riuscire a parlare a lungo con i tohji, i produttori che per loro natura sono silenziosi. Assimilare la loro ritualità: ho ritrovato un po’ le mie radici. E mi è cresciuto dentro l’orgoglio di essere giapponese». 
 

Come molti giovani del suo Paese, Nakata il saké lo beveva poco, «il 20% delle volte mentre l’80% preferivo il vino. Ma anche i produttori di saké amano il vino! Purtroppo molte aziende stanno fallendo, il mercato interno non tira più, ecco perché bisogna puntare all’estero. E io voglio fare da ponte tra le culture. A Milano dimostreremo con l’aiuto di alcuni chef che il saké si sposa bene con i piatti della cucina italiana». 
 

Il progetto di una Biennale 
La perdita del patrimonio artigianale lo preoccupa. «In Giappone ci sono aziende in ogni campo che hanno secoli di vita. Il mio produttore di saké ne ha appena compiuti 400. E dietro queste storie familiari esiste una cultura del saper fare di valore inestimabile.

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Gli artigiani sono bravi con le mani ma non sanno comunicare. Così mi sono detto: se esistono le Biennali d’arte e di architettura come quelle di Venezia, perché non fare una cosa simile per l’artigianato? Ecco, è il mio progetto per l’anno prossimo: voglio organizzare una Biennale internazionale a Tokyo: e l’Italia deve essere in prima linea, festeggeremo così i 150 anni di rapporti commerciali tra i due Paesi». 
 

Non chiede aiuti o appoggi istituzionali, Nakata. «D’altronde i politici giapponesi non mi cercano, il riconoscimento me lo diede il vostro presidente Ciampi nel 2005 quando mi nominò Cavaliere con l’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana». Preferisce fare da solo cercando di andare a segno, come quando vestiva la maglia giallorossa, con un guizzo di genialità. Stavolta imprenditoriale. 

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