CLIC! LA CINA È VICINA - IL VIAGGIO DEL FOTOGRAFO YAMASHITA SULLA VIA DELLA SETA DIMOSTRA CHE MARCO POLO RAGGIUNSE DAVVERO LA CINA: MA IL VILLAGGIO IN CUI GLI UOMINI OFFRIVANO MOGLI E FIGLIE AI VIAGGIATORI STRANIERI IN SEGNO DI OSPITALITÀ NON L’HA TROVATO...

Dalle verdi acque d’una valle in cui sostò il Veneziano alle donne dalle vesti scarlatte di Tiznot fino al mercato di Kashgar dove, oggi come allora, si può comprare di tutto: al Mao di Torino le immagini di Michael Yamashita: “Grazie alla mia ossessione per Marco Polo ho avuto il privilegio di vivergli accanto per 4 anni come con un caro amico”...

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Renato Rizzo per “la Stampa

 

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Tutto è nato da una scommessa e da una malattia: la prima era una sfida alla signora Frances Wood, capo del dipartimento di Sinologia del British Museum la quale sosteneva che, probabilmente, Marco Polo non era mai stato in Cina. La seconda è una febbre che lui - uno degli autori di punta di National Geographic, innamorato dell’Oriente - ha contratto in forma seria: «Un malanno dalla sintomatologia chiara e dalla cura ignota che porta ad avvertire un fascino travolgente per tutto quanto Marco ha fatto e scritto. Un’ossessione grazie alla quale ho avuto il privilegio di vivergli accanto, per quattro anni, come con un caro amico».
 

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Michael Yamashita è un uomo sorridente e dai modi gentili, ma dietro gli occhialini tondi ha lo sguardo cocciuto dei cacciatori di sogni. Il suo l’ha inseguito giorno dopo giorno, dal 1998 al 2002, vedendolo, via via, diventare realtà: è partito verso le Terre del sole nascente portando con sé «quattro macchine fotografiche, una decina di obiettivi, duemila rullini e, come unica guida, Il Milione scritto dal mercante veneziano».

 

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E ha dimostrato, prima a se stesso, poi, magari, anche alla signora Wood, che l’epica della narrazione non scalfiva, ma anzi enfatizzava, la realtà del racconto. E che quelle rivelate da Marco Polo non sono le città invisibili di Calvino, frutto immaginario di desideri e paure, ma luoghi d’una geografia concreta, spesso rimasti «congelati» nel loro tempo più lontano. 
 

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Fino al 12 aprile questi «ritratti» sontuosi o scabri, poetici o scavati nella realtà più dura sono presentati nei nuovi spazi espositivi del Museo d’Arte Orientale di Torino in una mostra realizzata con la collaborazione di National Geographic e curata da Marco Cattaneo che scandisce il cammino di un viaggiatore testardo lungo la favolosa Via della Seta fino all’ultimo Est. 
 

Mister Yamashita, si direbbe che sia più facile, oggi, ripercorre l’itinerario di Marco Polo: ci sono auto, treni, navi... Una risata: «Per alcuni aspetti è molto più complicato. Lui si muoveva in un unico impero che dal Mar della Cina arrivava sino alla Polonia. E, poi, aveva le «paiza» d’oro, i «pass» forniti da Kublai Khan che gli garantivano una traversata quasi sicura.

 

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Pensi a me, americano, in quel periodo e in quelle terre. Per raggiungere l’Iraq attraverso la no fly zone ho dovuto volare in Giordania, poi spingermi in auto sino a Baghdad». Un’altra volta per passare in Cina, visto che la frontiera era chiusa, «sono stato costretto a tornare in Afghanistan, ad andare in Tagikistan, di qui a volare a Pechino prendere un aereo e, in auto, ritornare a non più di 300 chilometri dal punto in cui ci avevano bloccati». 
 

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Nelle 76 foto e nei documentari creati da Yamashita e presenti in mostra, si fondono e si confondono le tracce del più lontano ieri e i segni del presente: «L’Afghanistan, per esempio, è un Paese che non evoca il passato: ci vive ancora. Per arrivarci siamo partiti dal Tagikistan su un elicottero di Ahmad Shah Massoud che, volando radente al suolo per sfuggire ai radar talebani, ci ha portati sino al remoto quartier generale del «leone del Panshir», che sarà poi assassinato nel 2001.

 

Il tempo di condividere qualche giorno con il «comandante» - ritratto emblematicamente sia immerso in preghiera, sia in armi su un tank russo - poi il fotografo riprende il viaggio verso Nord. Ha un lasciapassare dello stesso Massoud che chiede ai propri colonnelli scorte armate di kalashnikov, pane e kebab per questo piccolo uomo con lo sguardo fisso sulla sua unica «bussola»: la copia sempre più consunta del Milione: «Avevamo un vecchio pick-up che arrancava in un presepe di villaggi e desolazione seminato di mine antiuomo.

 

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Un giorno il fuoristrada ansante ha ceduto di schianto: L’autista ha cercato di rappezzare lo sterzo con una corda di pelo di yak, poi con una cinghia. Ci sono voluti tre giorni a fare 50 chilometri». 
 

Avanti tra mille difficoltà e mille scatti, rotta verso la Cina. Mese dopo mese, Yamashita trova conferma delle qualità di reporter di Polo: scopre, via via, le verdi acque termali d’una valle in cui sostò il Veneziano, le donne dalle vesti scarlatte di Tiznot, il mercato di Kashgar dove, oggi come allora, si può comprare di tutto, dai buoi ai «noodles», gli spaghetti.

 

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E la Grande Muraglia? I «negazionisti» della veridicità del racconto di Marco citano a sostegno della propria tesi il fatto che lui non ne parli mai: «In quei tempi esisteva solo una parte di fortificazione alta poco più di un metro. Quella i che vediamo ancora oggi risale a tre secoli dopo».

 

Andando verso Xanadou il fotografo cerca il villaggio che, nel Milione, è citato per una sorprendente usanza: «Qui ai viaggiatori stranieri gli uomini offrivano in segno di ospitalità mogli, sorelle, figlie». L’ha trovato? Yamashita sorride alla compagna: «No. Assolutamente no».

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