HAITI DEI BOLLENTI SPIRITI - I SEGUACI DEL VUDÙ ALLE “CASCATE DELL’AMORE”. E' ATTRAVERSO L’ACQUA CHE LE ANIME DEI MORTI TORNANO IN PATRIA

La fotografa Monika Bulaj sta lavorando al progetto “Le Afriche. Specchi dell’invisibile”. ‘’Haiti può essere inferno, urina, rifiuti, fogna. Se guardi troppo impazzisci. E allora mi arrendo agli spifferi della metafisica, alla bellezza dei ritmi e dei canti notturni che rendono il giorno più abitabile’’…

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Monika Bulaj per La Repubblica

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«Non nuotare troppo al largo », mi ammonisce Edward. «No, non è per gli squali, è per non disturbare gli dei». È qua sotto che per gli haitiani inizia l’Africa, la loro terra d’origine. In creolo la chiamano Guinen. È attraverso l’acqua che le anime dei morti tornano in patria, sopra un’isola sottomarina chiamata Ambadlò le “ombre” assumono forma di granchio, delfino, medusa.

 

Edward Craft è un hungan, un sacerdote, sciamano e pittore. Mi accompagna lungo la riva dell’Oceano caldo verso il tempio del dio Ague, Signore dei Mari. È stato lui a consacrarlo sacerdote del vudù, la religione misterica degli haitiani. In silenzio mi accompagna per il peristilio vuoto. Qui, come nel castello addormentato della fiaba, il terremoto di cinque anni fa ha congelato l’Aldilà. Tutto è fermo al 12 gennaio 2010. Tra le mura spaccate una barca di pietra sta come sospesa.

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Haiti può essere inferno, urina, rifiuti, fogna. Se guardi troppo impazzisci. E allora mi arrendo agli spifferi della metafisica, alla bellezza dei ritmi e dei canti notturni che rendono il giorno più abitabile. A Ville Bonheur, per esempio, dove i piedi neri delle danzatrici rovinano i disegni bianchi vudù tracciati sulla sabbia e la corifea del corteo subito aggiusta con il talco ogni linea.

 

Con una mano tiene il Vangelo, con l’altra governa Vévé, il simbolo grafico di uno spirito richiamato dall’Africa che abita i crocevia tra i meridiani degli spiriti e i paralleli dei fedeli, luoghi di appuntamento tra i vivi e i morti. Al pellegrinaggio annuale alla cascata benedetta i cattolici e i fedeli del vudù ci sono sempre andati insieme.

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E non fa niente se per i primi vi abiti la Madonna del Carmelo e per quegli altri la Dea dell’amore. Cattolicesimo e magia si sono sempre mescolati con naturalezza. Quest’anno però è successo che il cardinale di Haiti, il bel monsignor Langlois, abbia proclamato il vudù «il più grande problema sociale» dell’isola. «Sempre la stessa pena», si preoccupa una giornalista di Port au Prince. «Prima il terremoto, il colera, poi la povertà: e la colpa di chi è? Del vudù».

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«Vogliono cacciare gli hungan perché scompaia il sapere di generazioni, il nome delle foglie e delle erbe, perché tacciano i canti e i suoni», mi spiega la cattolica Joseline Colas dalla Commissione interreligiosa haitiana che ha subito preso le distanze dalla dichiarazione del cardinale. «Quando vuoi ammazzare il cane lo accusi sempre di rabbia. Dopo il terremoto sono stati uccisi diversi sacerdoti vudù. Hanno picchiato anche il capo degli hungan, Max Beauvoir. Dovresti andare a conoscerlo».

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Max Beauvoir, il massimo sacerdote, mi riceve nel suo magnifico giardino di uccelli bianchi e vecchi alberi che conosce per nome. «Un tempo anche la Chiesa cattolica aveva battelli negrieri. Nella loro ottica gli schiavi africani non avevano anima. E forse non a caso più recentemente una pastora protestante americana ha detto che il nostro paese è stato raso al suolo a causa del vudù.

 

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Molti hanno tratto vantaggio da affermazioni simili. Ad esempio, la distribuzione dei beni di soccorso durante il terremoto di cinque anni fa è passata attraverso i canali delle chiese, spesso a beneficio dei soli cristiani. Peccato, il cuore di ogni religione dovrebbe essere la compassione».

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Ritorno a Ville Bonheur, dove lo spirito che parla tramite il corpo di una grossa contadina non presta la sua divina attenzione alla processione armata di croci e stendardi che le sta passando accanto. Non fanno caso al corteo cristiano neppure le schiere degli zaka , i contadini posseduti dal dio dei campi, che vanno alla cascata dell’amore per i loro giocosi accoppiamenti.

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Nella vicina chiesa del Carmelo alcune donne portano sotto la statua dell’Immacolata fiori azzurri di plastica e poi cadono sotto i banchi, esauste, in un sonno senza memoria. I ragazzi arrivano alla cascata in moto, si strusciano contro il grembo roccioso della dea, per garantirsi figli, muscoli, amplessi. Tutti si sfilano i vestiti vecchi. La notte, sulle sponde del fiume e sulle rocce, restano mucchi di mutande e reggiseni. Impuri.

 

Al centro del Giardino delle Pietre, sul Monte Calvario, si bruciano candele per il Dio degli incroci. Sangue di polli sgozzati, piume, riso. Una donna abbraccia la terra. «È qui che vogliono costruire la chiesa, vogliono buttare cemento sulle pietre sacre », mi spiega Edward. All’ingresso, qualcuno ha infilzato su una croce il tronco di un Cristo senza testa che minaccia i passanti con fili di ferro al posto degli arti.

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Sotto le cascate, abitate dallo spirito femminile, sensuale e generoso, una ragazza si contorce. Sembra morsa da un serpente. I parenti la abbracciano con forza, via via, andiamo via, non è il luogo né il tempo, che lo spirito arrivi di notte, meglio prima dell’alba, tra le tre e le quattro del mattino.

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A Haiti, quando telefoni, non sai mai se ti risponderà un uomo oppure uno spirito. La possessione è il momento di crisi nelle religioni estatiche, l’attimo più atteso. La visita degli dei è un dono per tutta la comunità. Il mancato appuntamento porterebbe sfortuna. Lo vedi da attese, sguardi, premure. I tamburi chiamano a raccolta i loa dall’Africa. Sono dei, spiriti, presenze. Personaggi in cerca d’autore. Si presentano di colpo e cavalcano chi hanno scelto, durante le cerimonie o fuori orario, uno alla volta o in epifanie collettive.

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Hanno sete e reclamano costumi di scena: un berretto dei legionari polacchi, una spada, una bottiglia di rum, un fazzoletto, un trucco per i più vanitosi. Possono vivere solo tramite i corpi dei propri servitori. Non fanno male a nessuno, al massimo dicono cose sconvenienti e, come solo ricordo, possono lasciare il mal di schiena al proprio “cavallo”.

 

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Sono disperatamente umani: patiscono fame e parlano per proverbi, bevono senza ubriacarsi e litigano, si offendono, volteggiano nelle danze, piangono e talvolta muoiono di gelosia. La loro goffaggine è accolta con risate, ma le loro raccomandazioni vanno prese sul serio. Sono quattrocentouno, i loa: «Perché l’uomo ha venti dita tra quelle delle mani e quelle dei piedi» mi spiega Beauvoir, «e per esprimere la perfezione le ha moltiplicate per venti. Poi ha aggiunto uno, per dire che i quattrocento sono una cosa sola». Non aritmetica, metafisica.

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Possessione era la parola-ossessione grondante sesso e sangue nel lessico degli schiavisti. Ma anche un rompicapo per gli etnopsichiatri, i medici, i teologi, gli antropologi. Questi ultimi chiamano i loa “ archetipi che vivono nel cuore umano”. Ma gli haitiani sanno che “quando arrivano gli antropologi i loa se ne vanno”.

 

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