settis venezia

MORTE A VENEZIA - COSA UCCIDE UNA CITTA'? PIU' DELLE ARMI NEMICHE, L'AMNESIA DEGLI ABITANTI CHE SMETTONO DI DIFENDERE LA LORO IDENTITA' E DIGNITA'. ECCO IL J'ACCUSE DI SALVATORE SETTIS CONTRO L'IGNAVIA DEI VENEZIANI

Mario Pirani per La Repubblica

 

turisti veneziaturisti venezia

Mi era stato chiesto di recensire un agile pamphlet di un illustre storico dell’arte, Salvatore Settis, Se Venezia muore ( Einaudi) e solo la brevità dello scritto (154 pagine) e la fama di fulminante polemista dell’autore mi avevano spinto ad accettare la sfida che l’urgenza della richiesta mi rendeva davvero ardua.

 

Ma fu solo leggendo questo scritto che mi resi conto di quanta ricchezza culturale, sapienza critica, passione civile l’autore vi aveva profuso, ben al di là di quel che ci si aspetti da un libro di dimensioni apparentemente modeste, per quanto nobilitate dalla solida fama di chi lo aveva scritto.

 

 

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Non mi restava che dedicarmi a un’antologia che richiamasse alcuni passaggi di questa “operetta morale”, che tale mi appare, offrendola ai lettori perché le dedichino il tempo necessario ad assorbirne il messaggio con l’attenzione dovuta a un raro dono che il sapere di un saggio mette loro a disposizione. La morte delle città e di Venezia come archetipo della forma urbana costituisce il tema centrale del libro e da questa si dipanano analogie, contrapposizioni, intelligenti teorizzazioni.

 

Fin dall’avvio. «In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.);

quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlàn, la capitale degli Aztechi che i “conquistadores” spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico);

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o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della “polis” classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa […] Come accade a chi perde la memoria, anche le città quando sono colte da amnesia collettiva, tendono a dimenticare la propria dignità […] Persino Atene giunse a dimenticare se stessa. Oggi l’oblio incombe su Venezia ma perché il sipario avvolga ogni cosa in una notte indistinta, non c’è bisogno di complicità: basta l’indifferenza ».

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Ma qual è oggi il popolo di Venezia? La curva demografica è un drammatico segno ormai senza speranza e senza futuro. Se nel Cinquecento Sansovino esaltava il popolo che sapeva custodire le glorie di questa città “Nobilissima, et singolare”, oggi davanti alla drammaticità dei dati, cosa direbbe? Come leggere una scala che degrada dai 129.971 abitanti del 1540 ai 56.684 del giorno d’oggi, 30 giugno del 2014? Che una sola volta negli ultimi sei secoli conobbe un calo demografico comparabile a quello odierno, causato dalla peste del 1630, dopo la quale ci volle più di un secolo per tornare al livello di prima? Eppure il peggio, la “nuova peste”, doveva ancora venire: nel 2000 le proporzioni tra vivi e morti mutano radicalmente: 404 i nati, 1058 i defunti. Le cause sono individuate nell’invecchiamento ed esodo dei residenti, disfacimento delle famiglie, bassa natalità, continua contrazione della popolazione. Ne esce il disegno di una città in fuga da se stessa; la morte di Venezia, appunto.

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Mentre questa si svuota calano su di essa i ricchi e i famosi, pronti a comprare a costo altissimo una casa da usare cinque giorni l’anno. Un travaso di popolazione che travolge il mercato, creando un sistema di prezzi che espelle i veneziani dalla loro città e ne fa la capitale degli ectoplasmi della seconda casa. Sciamano intanto ogni anno per le strade e i canali otto milioni di turisti per 34 milioni di presenze a fronte di una massima “capacità di carico” di 12 milioni.

 

In altri termini, per ogni persona stabile che vive in città ve ne sono 600 volatili. Dominante ormai è una monocultura del turismo che lega la sopravvivenza di chi resta solo alla volontà di servire: i residui cittadini di null’altro sembrano più capaci che di generare migliaia di bed and breakfast, ristoranti, alberghi, agenzie immobiliari, vendite di prodotti tipici, cosa che peraltro sta prendendo piede in tutti i meravigliosi centri storici delle città d’arte del nostro Paese.

 

 

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La più recente, smodata, distruttiva invasione di quella che fu la Serenissima è la “modernizzazione” d’accatto rappresentata dallo sposalizio con i mastodontici transatlantici abilitati a sfiorare palazzi e case sul Canal Grande, la Giudecca, Riva degli Schiavoni. Se qualche incidente avesse luogo, le assicurazioni provvederebbero al rimborso e l’evento potrebbe tramutarsi in un supplemento di spettacolo (il Giglio e il naufragio della Costa Crociere insegnino).

 

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Oggi ormai si è in grado di elaborare una nuova cultura a reddito certo: la città può seguitare a svuotarsi di cittadini, di botteghe, di aziende produttive e venire sostituita da una mostruosa “macchina a tema”, con centinaia di migliaia di abitanti di passaggio, la maggior parte per mezza giornata, grandi magazzini, boutique di pregio, tutti trasportati per mare, in una defunta città che si riempie e si svuota ad orario e tempo fisso. Ma in anticipo sulla città un’altra cosa è morta prima, a tempo debito: la democrazia e le sue istituzioni, svuotate dai cittadini e salvaguardate in partenza dall’acqua alta.

 

 

«Oggi un cieco presentismo — scrive Settis — prono al dominio dei mercati marginalizza ogni dissenso respingendolo in nuovi ghetti. Per esempio quello dei veneziani che non solo resistono nel centro storico ma lo difendono dalla monocultura del turismo e delle mode di un’architettura corriva. [...] Questa condizione minoritaria, da “stranieri” risparmiati dal contagio della cultura dominante, può diventare una forza. Ma lo sarà solo se l’assediata comunità dei pochi saprà acquistare consapevolezza, sviluppare solidarietà sociale e capacità progettuale, esercitare il diritto di parola».

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