1. “SHIT AND DIE”. AL RESTO PENSA IL NOSTRO PIÙ GRANDE ARTISTA IN PENSIONE, CATTELAN 2. AD ARTISSIMA PORTA 50 ARTISTI PER ESALTARE TORINO E SPETTRI: MOLLINO, CAVOUR, ROL 3. “IL SIMBOLO DELLA MOSTRA È UN CAPPIO. SIAMO DIVENTATI SPETTATORI DELLA NOSTRA STESSA ROVINA, MA SEMBRA NON RIGUARDARCI, COME SE LA VEDESSIMO ALLA TV. EPPURE SIAMO PROPRIO NOI AD AFFONDARE. PIÙ CHE UNA SCOSSA CI VORREBBE UN TERREMOTO” 4. “NIENTE MUSEO DI ARTE CONTEMPORANEA A MILANO? A FURIA DI STARE FERMI MENTRE GLI ALTRI AVANZANO, CI TROVIAMO ALL’AVANGUARDIA: IL FUTURO DELL’ARTE NON È NEI MUSEI” 5. “GLI STATI UNITI E TUTTO L’OCCIDENTE HANNO GODUTO DEL BENESSERE DI UNA CRESCITA SPROPOSITATA. SI SAPEVA CHE NON SAREBBE POTUTA DURARE PER SEMPRE, LA CRESCITA È LA PARTE ASCENDENTE DI UN CICLO, DI CUI UNA CRISI È L’INEVITABILE SECONDO TEMPO” 6. “LA CULTURA TELEVISIVA MI SEMBRA RADICATA IN OGNI AMBITO, COME SE TUTTO IL PAESE FOSSE GOVERNATO DA UN TELECOMANDO, O DA UN TWEET, SE PARLIAMO DI RENZI”

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Francesca Pini per “Sette - Corriere della Sera

 

shit and die maurizio cattelan, maria papini and myriam ben salah shit and die maurizio cattelan, maria papini and myriam ben salah

Le nostre conversazioni serali sulla panchina del gelataio (filmate dalla telecamera di sicurezza) e passate inosservate tra il viavai, sono confluite in questa intervista. C’è il gran ritorno di Cattelan, non come “facitore” di opere, ma come curatore della mostra più cool di Artissima per One Torino (Shit and Die co-firmata da Myriam Ben Salah e Marta Papini, a Palazzo Cavour, dal 5/11 all’11/01/2015) su invito della direttrice artistica della fiera, Sarah Cosulich. Nel 2011, prima della sua mostra al Guggenheim di NY, annunciò che avrebbe smesso di lavorare. E la cosa non è mai parsa troppo credibile. Forse voleva solo dire che sarebbe entrato in un periodo sabbatico.

 

Cosa ha fatto allora in questi tre anni, oltre che godersi la vita?

 

«Ho esplorato le possibilità di vita dopo la morte (artistica). Sono uno di quei pensionati che non riescono a smettere di lavorare: mi sono dedicato a Family Business, un piccolo spazio newyorkese indipendente a Chelsea, nel quartiere delle gallerie. Ho prodotto moltissimo: almeno dieci numeri della rivista TOILETPAPER, un paio di libri, e una mostra Shit and Die, con più di cinquanta artisti… sono un pensionato che non si limita a guardare i cantieri!».

 

sarah cosulich canarutto artissima sarah cosulich canarutto artissima

Qualcuno ha perfino scritto che Cattelan si sarebbe dedicato alla pittura, ma lei non sa dipingere.

 

«Il regalo più angosciante che abbia mai ricevuto è stato un kit da pittore: c’era tutto quello che serviva per dipingere, e io non avevo idea di come usarlo. È stato un anno in casa a ricordarmi quanto fossi inadeguato come pittore. Era davvero frustrante, erano strumenti che desideravo provare ma allo stesso tempo sapevo che non ero in grado di dominarli».

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Seduta spiritica. Ci sono opere realizzate che non abbiamo mai visto perché le ha distrutte prima?

 

«Ci sono opere che ho iniziato a pensare e che non hanno mai visto la luce, ma non sono quelle a tormentarmi. Se potessi distruggere buona parte dei miei lavori, rifarei un nuovo editing, sempre più severo ogni giorno, e non rimarrebbe molto di quello che ho fatto».

 

Rigoroso, puntuale, stakanovista, perfezionista, attento al dettaglio.

 

«Temo di essere metodico ai limiti del patologico: prima di iniziare un lavoro pulisco tutta la casa, faccio tabula rasa e solo quando tutti gli oggetti sono fuori dalla porta posso iniziare a concentrarmi sul nuovo progetto. Per certi versi ho sempre avuto un animo da impiegato».

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Quindi Cattelan è uno che butta gli oggetti.

 

«Preferisco tenere i ricordi: una stanza o è piena di cose, o è piena di idee. La mia è così priva di tutto che fa eco, è un po’ come stare in cima a una montagna. L’essenzialità è fondamentale per non essere distratti dalle cose terrene. In parte è un modo per alimentare le proprie ossessioni, nel vuoto si moltiplicano più facilmente. E poi ha molti vantaggi: i miei traslochi non durano più di un’ora».

 

cattelan cattelan

In questi mesi di preparazione della mostra, Cattelan si è “appropriato” della città, servendoci un concentrato di piemontesità (mancano solo il tartufo d’Alba, la bagna cauda, i gianduiotti, il Barbaresco…) esaltando tutti quei personaggi di una Torino multispettrale, come Mollino, Mondino, Cavour, Rol (il più noto sensitivo del XX secolo). Quali storie racconterà?

 

artissima artissima

«Torino è una città di segreti che nessuno ti sussurrerà mai all’orecchio. Mi ha affascinato questa cortese riservatezza sabauda… tutto sembra ricoperto da una leggera patina, che non ti permette di capire cosa c’è sotto. In qualche modo è stato anche un ritorno alle origini: la mia prima mostra in un museo è stata a Rivoli, grazie all’invito della temeraria Ida Giannelli. Abbiamo chiesto a Enzo Cucchi di “santificarla” con un ritratto in mostra, che ci ha lasciato letteralmente a bocca aperta. A Torino abbiamo trovato molti tesori, e non abbiamo neanche dovuto scavare un granché. Cavour e sua cugina Virginia Oldoini erano già nelle stanze del Palazzo ad aspettarci: li abbiamo idealmente uniti esponendo foto della Contessa di Castiglione, una Cindy Sherman ante litteram. Carlo Mollino è presente grazie a una seduta spiritica (documentata dal video di Yuri Ancarani) mentre per Rol non c’è stato bisogno di evocarlo».

 

Lei però alla seduta mica ha voluto parteciparvi. L’esoterismo la mette a disagio?

 

«Faccio sempre confusione tra esotismo ed esoterismo...mi pare comunque che a Torino siano presenti entrambi ».

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Che progetto avete pensato su Rol?

 

«Gustavo Rol è una persona che meriterebbe una mostra tutta per sé, ci sono talmente tanti aspetti da approfondire che abbiamo deciso che era giusto limitarsi a omaggiarlo con un ritratto, che farà parte di una galleria in mostra in stile Uffizi, insieme ad altri personaggi legati alla città come Marisa Merz, Guido Costa, Carol Rama, Alba Parietti, Rita Pavone e molti altri».

 

L’Arte Povera è nata a Torino, e l’arte ricca dove?

 

«Tutta l’arte nasce povera, e solo una parte diventa ricca. Ma l’arte che preferisco è quella che è anche onesta dal punto di vista intellettuale. Shit and Die è un percorso fatto di opere di questo genere, e spero che risulti altrettanto onesta e senza fronzoli».

 

Olivetti è un’altra figura che ha valorizzato.

 

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«Mi affascinano le utopie, soprattutto se viste da lontano, a distanza di anni, quando nessuno ne capisce più il significato: forse è proprio quello il momento per tornare a crederci. Le unità residenziali Olivetti si ispiravano direttamente all’opera di Le Corbusier, addirittura credo ci sia stato un carteggio tra i due. La cosa che più mi ha stupito è che non sia quasi rimasta memoria di quelle abitazioni: molto è stato buttato e non esiste un archivio dei pezzi di design che le arredavano. Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare una stanza della mostra a Talponia, ricostruendo il monolocale dove abitavano gli impiegati Olivetti».

 

Eh già l’importanza della casa! Anche Cattelan, spiritello vagabondo, ha un nido. Con un letto, una vasca da bagno e un wc. Perché allora non vivere in albergo? (La poetessa Alda Merini, povera in canna, quando ricevette il premio Montale lo spese tutto in un mese d’albergo).

 

«Per quanto bello possa essere non sarà mai una casa. L’appartamento è una parte di te stesso, non si può prendere in affitto. È vero, è l’essenziale: per me il lusso è non aver bisogno di altro».

 

In casa c’è la cucina, oppure mangia sempre fuori?

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«Eccome se c’è: ceno spesso a casa davanti al computer, mentre lavoro su skype. Quando sono a Milano, vado a pranzo al Carpaccio: è il mio momento di normalità, lì mi sento davvero in famiglia».

 

Ma c’è almeno una donna di servizio che fa le pulizie in casa sua? Lei non mi sembra un tipo molto domestico.

 

«Ci sono delle cose che uno deve fare per ricordarsi da dove viene: le pulizie di casa sono un momento di “reality check”, per mantenere i piedi per terra».

 

Giorgio Morandi viveva in una stanza monacale, e aveva le sorelle che lo accudivano nella quotidianità.

 

«Di Morandi trovo molto più interessante lo studio che la sua vita pratica: ha dipinto per decenni gli stessi oggetti, con una sincera dedizione alla propria ossessione. Il vivere senza oggetti intorno permette di non occuparsi di altro che del proprio lavoro. Credo di essere ossessivo almeno quanto lui, ma preferisco accudirmi da solo, non amo l’idea di dipendere dagli altri. È più facile perché per me casa e studio collimano, e questo spiega molte cose».

 

Una fidanzata che venisse a casa sua che cosa può lasciare, solo lo spazzolino?

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«Sono sempre stato un sostenitore della linea di Woody Allen: due case su Central Park, da una parte e dall’altra del parco, e a ognuno il suo spazzolino. È la ricetta per ottenere una relazione che duri più di qualche mese».

 

Alla forca. Il pittore Mondino, grazie a lei, verrà tolto da un certo limbo. In che misura è un’operazione artistica e quanto invece un’operazione di mercato?

 

«Non voglio deludere le aspettative del mercato, ma ho letto da qualche parte una annotazione interessante: persino un capolavoro di un grande maestro, acquistato direttamente dall’artista per 100 dollari e rivenduto 350 anni più tardi a 10.000.000 di dollari, frutterebbe al collezionista solamente il 3,34% all’anno. Tutti calcoli piuttosto insignificanti se parliamo delle opere: trovo interessante recuperare la memoria di un artista piemontese fuori dalle righe come Mondino, che ha deciso di guardare dalla panchina la partita dell’Arte Povera, e in parte credo abbia pagato questa scelta».

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Ma poi ci si domanda, una volta che Cattelan incassa certe cifre vertiginose dalla vendita delle sue opere “blue chip”, cosa ne fa?

 

«C’è una differenza tra mercato primario e mercato secondario: le cifre esorbitanti a cui vengono vendute le opere in asta non sono mai vendite dirette, quelle su cui agli artisti viene pagata una percentuale. Se un collezionista compra il lavoro da una galleria e poi lo rivende all’asta il profitto è tutto suo... sono un po’ come i soldi del Monopoli: fintanto che giochi qualcuno può credere che tu sia ricco, ma anche se vinci non hai mai soldi veri in tasca».

 

Torino Anni 60 città della Fiat, di un Sud che si trasferisce al Nord; di quel passato storico-industriale ha recuperato qualcosa per il suo progetto?

 

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«In mostra ci sarà il rumore della produttività, ma senza scopo e senza crescita: una macchina che si autodistrugge dall’interno, come se invecchiasse mentre il tempo viene scandito da trentanove metronomi ognuno a un ritmo diverso. A modo suo, attraverso metafore visive, la mostra parla anche della fine del periodo industriale torinese, e degli strascichi di quel declino che si intravedono ancora oggi».

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Artissima è soprattutto la fiera degli artisti emergenti. Lei quali tiene d’occhio?

 

«Buona parte li abbiamo invitati in mostra: Davide Balula, Florian Pugnaire e David Raffini, Stelios Faitakis, Petrit Halilaj, Julius von Bismarck, Dasha Shishkin, Jakub Julian Ziolkowski: di sicuro tutti interessanti, almeno per noi».

 

E veniamo alla cravatta, un nodo scorsoio. Per Artissima lei metterà in scena la famosa forca.

 

«Sono troppo pignolo e troppo imbranato per poter portare la cravatta tutti i giorni: un nodo scorsoio invece è per sempre! La forca è stata seminale per la mostra: vedendola al Museo di Antropologia criminale di Torino abbiamo capito che poteva essere il perno attorno a cui far ruotare i contenuti della mostra».

 

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Il cappio metafora anche di quello che la crisi, la finanza e la politica hanno messo agli italiani?

 

«Non penso si possa più parlare di singoli stati nazionali: gli Stati Uniti e tutto l’Occidente hanno goduto del benessere di una crescita spropositata, con il tacito consenso di tutti. Si sapeva che non sarebbe potuta durare per sempre, la crescita è la parte ascendente di un ciclo, di cui una crisi è l’inevitabile secondo tempo. C’è stato un momento in cui moltissimi investivano perché chiunque poteva trarne profitto con facilità: probabilmente quell’avidità è una delle cause principali di ciò che viviamo ora».

 

L’Italia è in picchiata, le promesse politiche si susseguono, lei vota? Il fenomeno Grillo la interessa?

 

«La cultura televisiva mi sembra radicata in ogni ambito, come se tutto il Paese fosse governato da un telecomando, o da un tweet, se parliamo di Renzi. Purtroppo o, per fortuna, non ho la tv né Twitter, quindi sono sempre indeciso su chi votare!».

 

I vignettisti vedono Renzi come Pinocchio e Topo Gigio, lei come?

 

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«Pinocchio è un personaggio della mia infanzia, che mi ha sempre lasciato un senso di inquietudine, credo valga per la maggior parte dei bambini. Il solo pensare a un ciuco che raglia mi fa correre i brividi giù per la schiena… ma in effetti non è il solo motivo per cui preferisco non pensare a Renzi».

 

Lei che ha talvolta scandalizzato l’opinione pubblica, che cosa la scandalizza invece di quest’Italia?

 

«Mi colpisce come siamo diventati spettatori della nostra stessa rovina. Parafrasando un lavoro di Joseph Beuys del 1972, oggi si potrebbe dire “La Crisi siamo Noi”: ma sembra non riguardarci direttamente, come se la vedessimo alla tv. Eppure siamo proprio noi ad affondare. Più che una scossa ci vorrebbe un terremoto. All’estero non sento esprimere molte opinioni sull’Italia, e questo mi preoccupa quasi più di un giudizio negativo ».

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Tre papi. La Nona Ora, l’opera di Papa Wojtyla abbattuto dal meteorite, è un’icona. Le dimissioni di Ratzinger, l’ascesa di Papa Francesco, la coesistenza di due papi in Vaticano (uno attivo e l’altro silente), stanno cambiando la storia della Chiesa.

 

«Il gesto di Ratzinger credo sia un insegnamento per tutti, non solo per i fedeli: ci ricorda che, ogni tanto, anche una persona da sola può dare inizio a una rivoluzione. Di sicuro Benedetto XVI si è assicurato un capitolo nei libri di storia, e non era affatto scontato che ci riuscisse. Mi piace come si è mosso finora Papa Francesco, com’è riuscito a interpretare il sentimento di protesta, diffuso un po’ a tutte le latitudini. Mi chiedo quanto i suoi metodi innovativi si debbano anche alla situazione eccezionale creata da Ratzinger, dalla coesistenza delle due figure di bianco vestite in Vaticano.

 

Papa Francesco, avendo più volte detto che stiamo vivendo una terza guerra mondiale, descrive con rara efficacia l’estensione e la crudeltà dei conflitti attuali. Forse è la prima guerra che, a tutti gli effetti, può definirsi mondiale. Anche se gli schieramenti non sono definiti e palesi è chiaro che siamo di fronte a un’instabilità generale davvero preoccupante, e che forse non ha precedenti nella storia recente. Dall’altra parte c’è anche la questione mediatica, il modo di raccontare la crisi ormai influisce direttamente sulla crisi stessa: siamo nella prima guerra del mondo digitale».

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Che rapporto ha con le nuove tecnologie?

 

«Controverso: dita troppo grosse, occhi troppo presbiti ».

 

Le opere d’arte più orribili prodotte nei secoli scorsi e in questo decennio?

 

«Di molte mi ritengo un diretto responsabile. Forse non delle più orribili, ma di quelle sacrificabili di certo».

 

 Qualche opera regalata?

 

«Si dice che nei migliori dei casi uno regala quello che gli piacerebbe per sé, ma di qualità lievemente inferiore, ma io non lo credo. Sempre a proposito di Pinocchio, ho regalato al Guggenheim quello affogato nella vasca».

 

CATTELAN BY PIERPAOLO FERRARI CATTELAN BY PIERPAOLO FERRARI

C’è un’opera da lei creata alla quale è più affezionato per la sua genesi?

 

«Me stesso, ed è anche quella che mi ha richiesto più anni».

 

Potrebbe mai immaginare di avere un figlio, in assoluto la cosa più creativa al mondo?

 

«Ne ho avuti tanti quanti le mie opere, e li ho dati tutti in adozione».

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Lei vive tra Milano e New York, una Milano che ha rinunciato ad avere un museo di arte contemporanea.

 

«A furia di stare fermi mentre gli altri avanzano, ci troviamo per un breve momento a essere l’avanguardia. Ora come ora non credo che il futuro dell’arte stia nei musei: forse è il momento di cogliere l’attimo e approfittare del fatto di essere rimasti senza musei per inventare nuove formule».

 

Sgarbi vuole portare all’Expo di Milano la Venere del Botticelli, mentre gli hanno negato il prestito dei Bronzi di Riace. Trova che sia la strategia giusta per la nostra cultura?

 

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«Non mi ero reso conto che la sua fosse una strategia, pensavo fosse semplicemente un modo per far parlare di sé».

 

Come si fa a diventare amici di Cattelan?

 

«Basta aggiungermi su Facebook, ci sono almeno cinque profili col mio nome, e nessuno mi appartiene».

 

Si farebbe mai intervistare da Marzullo nella sua trasmissione televisiva?

 

«Solo se potessi fare io le domande».

 

Qual è il suo libro culto?

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«Delitto e Castigo di Dostoïevski, sempre sul comodino. La mia infanzia è stata fatta più che altro di racconti d’avventura letti tutti d’un fiato: sognavo di arrampicarmi nella neve con i racconti di Rigoni Stern e Bonatti, poi sugli alberi col Barone Rampante di Calvino. Ero uno di quei ragazzini che si divorava i racconti di Salgari pubblicati a tre colonne con la scritta “segue” in fondo all’ultima riga».

 

È attualmente fidanzato?

 

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«Posso darle il mio numero di telefono?».

 

Ha mai più rivisto il suo primo amore?

 

«Signor Marzullo, si faccia i c**** suoi».

 

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