LA SPOON RIVER DEI COMUNISTI DI LUZZARA - MOSTRA MERAVIGLIOSA AL "V&A MUSEUM" DI LONDRA DI PAUL STRAND CHE RACCONTO’ CON CESARE ZAVATTINI L'EMILIA ROSSA DEGLI ANNI '50 - MA TRA FORZATURE E DIVIETI (DI SORRIDERE) QUELLO DEL GRANDE FOTOGRAFO FU "NEOREALISMO ASSISTITO" - - -

Tutte le forzature del grande fotografo: al bottegaio fece togliere la mercanzia appesa al muro per fotografare la pietra miliare all'ingresso del paese; ma fece piazzare anche lì una bicicletta. Non si vede un'auto nel borgo che doveva apparire arcaico, eppure mentre Strand scattava la Fiat stava per lanciare la Seicento...

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Michele Smargiassi per “Il Venerdì- La Repubblica”

 

C'è un motivo per cui Angela non ride, in quella foto di sessant'anni fa che ha fatto il giro del mondo. Anzi ce ne sono due. Primo, Paul Strand non voleva che ridesse.

 

«Neanche che sorridessi, voleva proprio quell'espressione lì». Secondo, comunque non ne aveva più voglia, Angela, di sorridere, perché per quel ritratto, lei che a nove anni nessuno le aveva ancora fatto una foto, davanti alla grossa macchina di legno di quel signore americano, famoso, che faceva un po' paura, lei ovviamente si era messa il vestitino della domenica, le piacevano quelli color rosa e azzurro, ma lui no,

 

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«mi fece cambiare, volle che mettessi quel brutto grembiulino. E non era ancora soddisfatto. Allora prese il cappello di paglia dello zio, e il suo fazzoletto, e me li mise addosso. Dovevo sembrare una contadinella triste…».

Neorealismo assistito, diciamo. Ora sorride liberamente, Angela Secchi, e non sospetta di avere incrinato con i suoi ricordi un po' della retorica che circonda uno dei più famosi fotolibri della storia della fotografia, il primo e più celebre di quella italiana: 

 

paul strand zavattini cover paul strand zavattini cover

Un paese, capolavoro a due occhi e due mani, queste ultime appartenenti a Cesare Zavattini, pubblicato da Einaudi nella primavera del 1955. Fra pochi giorni (e fino al 3 luglio) una grande retrospettiva al Victoria & Albert Museum di Londra rievocherà l'opera di Strand, gigante della fotografia del Novecento, padre della straight photography, che seppe fondere la lezione dei suoi due grandi maestri, l'umanesimo sociale di Lewis Hine e la raffinatezza estetica di Alfred Stieglitz.


Nella mostra, un'intera sezione sarà dedicata a Luzzara, a quel «film su carta», a quel poema in bianco e nero che oggi è considerato uno dei suoi vertici creativi, che Luigi Ghirri paragonò alle cantate di Bach «scritte per la chiesa del paese», a quell'epica romantico-proletaria, un po' realtà un po' fiction, che nacque quasi per caso. Luzzara di Strand è un villaggio dell'immaginario. Come Scanno di Cartier-Bresson, o Deleitosa di W. Eugene Smith.

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Uno di quei posti leggendari di cui gli appassionati di fotografia di mezzo mondo dicono «so cos'è, non so dov'è». Sta nella bassa pianura di Reggio Emilia, ma neanche Strand lo sapeva, quando nel 1949 gli presentarono Zavattini, il principe del neorealismo italiano, già strafamoso per la sceneggiatura di Sciuscià e Ladri di biciclette, a un festival del cinema di Perugia.

Il fotografo e lo sceneggiatore-poeta scoprirono di avere lo stesso progetto nel cassetto: un libro dedicato a un posto specifico, a una cellula di umanità, a una micro-comunità. Decisero di farlo insieme. Ma dove? Zavattini gli propose una mezza dozzina di posti, da Bergamo a Fondi a Gorino a Gaeta, che Strand trovò deprimente, troppo misera. Strand era un utopista. Appena fuggito dagli Usa per disgusto del maccartismo, aveva, e voleva, un'immagine nobile del proletariato.

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Alla fine Zavattini ricorse al suo paese natale: Luzzara, poche migliaia di anime sulle rive del Po. Lasciato da anni, «sarà una scoperta anche per me». Strand la trovò «piatta come un pancake», «non pittoresca», ma piena di «gente meravigliosa». Gli piacque. Ci passò quattro settimane, poi altre due. Taciturno come un patriarca, «osserva tutto come un agente del fisco» scrisse poi l'ironico Za, «manda giù le immagini come il formichiere la lingua con le formiche».

Luzzara era un paese povero, ma non distrutto. Nell'Italia dove solo sette case su cento avevano acqua corrente, luce e bagno, se la cavavano meglio di altri. Paese rosso, non potevano immaginare un americano comunista: «Oh, fai la spia per gli americani?» dicevano un po' per scherzo un po' no a Valentino Lusetti, agricoltore che faceva da guida a Strand perché, ex prigioniero di guerra in Nevada, sapeva l'inglese.

La famiglia Lusetti finì sulla copertina del libro, in un ritratto di gruppo calibrato come un dipinto di Velázquez. Strand considerava The Family uno dei suoi capolavori ed è esposto al MoMa. Bicicletta, muro scrostato, piedi scalzi, c'è da giurare che a qualcuno fece togliere le scarpe. Al bottegaio fece togliere la mercanzia appesa al muro per fotografare la pietra miliare all'ingresso del paese; ma fece piazzare anche lì una bicicletta, per lui la quintessenza della luzzarità. Non si vede un'auto nel borgo che doveva apparire arcaico, eppure mentre Strand scattava, il cinema del paese dava Via col vento, e la Fiat stava per lanciare la Seicento.

La gestazione del libro fu un tormento. Zavattini tirava per le lunghe col suo testo. Forse non sapeva bene cosa fare. Avrebbe preferito «un librone», in edizione economica, con una foto e un'intervista per pagina, pensava a una specie di Spoon River, con le storie di tutti i luzzaresi raccontate da loro stessi.

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Finì per fare un'introduzione e molte didascalie. Organizzarono una presentazione al cinema Pace, Angela si ricorda, «fu un successo, dovettero ripetere la proiezione tre volte». Ma in paese non tutti comprarono il libro. Il perché, Valentino lo scrisse a Strand: «È un buon libro per la propaganda comunista, ma costa troppo». Tremila lire, come una bicicletta.

«A me lo regalò Zavattini, che era amico di mio zio», ricorda Angela, «mi disse: tienilo caro, un giorno sarà un libro importante». Editorialmente, fu un fiasco. Mille copie largamente invendute. Per Zavattini doveva essere il primo volume di una lunga collana, Italia mia  stessa formula, un luogo, un uomo d'immagine e uno scrittore, aveva già prenotato Rossellini per Roma, De Filippo per Napoli, Visconti per Milano e poi Soldati, Blasetti, Lattuada, Antonioni…

 

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Non se ne fece più nulla. Né Einaudi ristampò più il volume, neppure quando la notorietà di Strand salì alle stelle. Zavattini poi tornò con un altro grande della lente, Gianni Berengo Gardin, proprio l'anno della morte di Strand, e fece un libro non meno bello.

Oggi una delegazione del V&A e di giornalisti britannici perlustra Luzzara in cerca degli scorci originali. Il sindaco Andrea Costa è contento, la fama turistica di Luzzara capitale dei pittori naïf (è la terra di Antonio Ligabue) è ormai appannata, «mentre la fotografia è in grande crescita». Il centro culturale Zavattini, che conserva le foto di Hazel Strand (la moglie, fotografa eccellente) si riconverte alla fotografia.

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Hanno inaugurato il «vicolo Paul Strand» di fianco al teatro, ma gli inglesi sono un po' delusi, perché le scenografie cambiano, il caffè ha l'insegna al neon, il cartello Luzzara dietro al curva è sparito… La finestra con la grata però c'è ancora, e ci sono le biciclette! E clic, si clona Strand col cellulare.

Sono venuti in tanti, negli anni, a rifare quelle foto. Angela, una delle pochissime sopravvissute tra le decine di persone ritratte nel libro, non si nega mai, «arrivano già col la mia foto in mano, è lei? Proprio lei? Posso farle una foto? Ma davanti a quel portone, dov'è il portone?».

 

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Ride divertita di quella sua seconda vita internazionale che la sfiora soltanto. Chissà, poteva anche andare diversamente. «Venne anche De Sica, mi disse: studia recitazione che un giorno ci rivediamo…». E lei, Angela «Io? Per venticinque anni ho tenuto una lavanderia».

 

 

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