STILE DE LEMPICKA - MARITI E AMORI SAFFICI A GOGO' PER “L’ATTIZZANTE” PITTRICE: SPIATA DAL KGB, EBBE MOLTI AMANTI MA DISSE NO ALL’“ORRENDO NANO IN DIVISA” D’ANNUNZIO CHE LE SI SPOGLIÒ NUDO DAVANTI: “NON SOPPORTO LA PORNOGRAFIA” - MOSTRA A TORINO

Si apre oggi a Torino la mostra su una delle più?eclettiche artiste del ’900: cosmopolita, mondana, inventò il glamour ma fu una pessima madre - La storia erotica mancata con d’Annunzio che lei avrebbe voluto ritrarre per diventare famosa: il Vate tampina “la cammellona” e “tutto il Vittoriale dipende da un solo pelo d’una attizzante Polonnaise”...

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1. INVENTÒ IL GLAMOUR TRA MODA E MANIERISMO

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Elena Del Drago per “la Stampa”

 

Se pensate di conoscere Tamara De Lempicka, questa mostra vi farà ricredere. Avrete sorprese in grado di illuminare questa artista amatissima con nuove considerazioni e scoperte. Ne parliamo con Gioia Mori, curatrice della mostra e massima esperta dell’artista.
 

Lei ha curato moltissime mostre di Tamara, perché crede che sia così amata dal pubblico, per la sua biografia o per la sua pittura?
«Innanzitutto il suo successo non è qualcosa che abbiamo decretato noi nel 1980, quando nasce il suo fenomeno moderno. Negli Anni 20 e 30 del Novecento era già famosissima a livello globale. Per dare una misura della sua fama posso dire che quando ho cominciato a studiarla erano noti soltanto 180 articoli a proposito del suo lavoro, ora ne ho scoperti ben 3000 fino al 1972! Era un’artista di grande successo che non esponeva solo nei Salon di Parigi, ma anche al Carnegie Institute di Pittsburgh, per esempio, dove nel 1929 aveva vinto il premio del pubblico».
 

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Poi c’è stato un periodo di oscuramento dovuto alle sue vicende personali...
«Si, il suo secondo marito era ebreo e dunque scapparono dall’Europa nazista verso l’America, prima all’Avana, poi a New York dove Tamara espose ed infine a Hollywood e restarono due anni. Siamo però ormai nel 1941 e il mercato americano preferiva le opere dei surrealisti francesi fuggiti anche loro negli Usa» .
 

Quando torna in auge la sua pittura?
«Nel 1972 quando un gallerista parigino, Alain Blondel, sfogliando una rivista si innamora di questi quadri spettacolari e decide di andare a cercare l’autrice. Quando la trova deve insistere moltissimo per farla esporre e complice una parallela riscoperta dell’Art Deco di cui era artista di rilievo, torna in auge. I primi grandi collezionisti sono gente dello spettacolo come Barbara Streisand, Angelica Houston, Madonna, Jack Nicholson».
 

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Qual è l’ingrediente più importante della sua straordinaria carica comunicativa?
«Da una parte il suo linguaggio pittorico molto fermo e suggestivo, i suoi colori decisi, un disegno che deriva dai manieristi italiani e una tecnica di illuminazione molto accentuata tratta, invece, dalla fotografia.

 

E poi l’impaginazione che somiglia alla grafica, ai manifesti, non ci sono superfetazioni, insomma, c’è un coinvolgimento immediato. Dall’altra parte bisogna considerare una vita mai banale, che del secolo ha vissuto tutte le vicende più travagliate, e il suo atteggiamento personale eccentrico».
 

In mostra come avete reso questa ricchezza biografica?
«Ho voluto accentuare l’aspetto globale della sua personalità: dalla russia zarista va a Parigi, si muove tra Berlino, il Belgio, Praga, poi il passaggio negli Stati Uniti, e quello finale in Messico, focalizzando l’attenzione sulle case. Dal primo studio fuori Parigi dimesso, alla dimora di Hollywood firmata da Wallace Neff che disegnò molte ville dei divi a Los Angeles. Ho lavorato sulle fotografie di tutti gli interni, esponendo gli oggetti presenti nelle case, ma anche le nature morte e i ritratti che vi sono stati realizzati».
 

Quindi avete scelto di procedere per temi.
«Si comincia con la Natura morta perché il primo documento che abbiamo, del 1914, quando aveva 16 anni, era una rosa. Il suo inizialmente era realismo, poi si ispira all’arte fiamminga del ’600 e infine, negli Anni 40, arriva al trompe l’oeil: un percorso di ricerca all’interno del genere. Quindi si passa al tema dei bambini, e pensare che non è stata certo una madre esemplare: ebbe una bambina a 18 anni prima della rivoluzione russa, nel 1916, che finisce per crescere in collegio e il loro è stato un rapporto terribile fino alla fine, sebbene la figlia abbia posato per alcuni quadri celeberrimi in mostra come Gisette al balcone o la Comunicanda».
 

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Una vera sorpresa della mostra sono i quadri religiosi..
«Si è una parte molto straniante. Tamara comincia ad esporre temi religiosi soltanto nel 1930, ma ci sono opere già nel 1922. Ebbe un’attenzione al tema della Vergine con il Bambino, alla figura della Madonna, che i critici del tempo ritenevano dipinte come icone. Nella parte più glamour della mostra, quella della moda, mi sono poi divertita moltissimo rintracciando i modelli originali dipinti nei quadri. Non mancano poi i gioielli perché aveva la mania di comprarsi un gioiello per ogni quadro venduto. Iniziò facendo l’illustratrice di moda d’altronde, aveva un legame strettissimo con quel mondo».
 

C’èqualche scoperta che emerge dalla mostra?
«Si. Era ossessionata dall’essere spia bolscevica e tutti la credevano una mitomane. E invece ho trovato i documenti di un triangolo spionistico, ben tre spie l’hanno seguita a lungo! Un fotografo che le fece una serie di scatti, per esempio, un nobile russo immigrato in America, era una spia del Kgb: ha firmato il ritratto di Tamara del 1941 insieme a Dalí».

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2.  COSMOPOLITA E MONDANA DISSE NO A D’ANNUNZIO

Marco Vallora per “la Stampa”

 

Eccentrica, non c’è che dire (come capitava in quegli anni di rivolta anche estetica, e di svagata «drôle de guerre»: definizione curiosamente polacca. La guerra «buffa, strana»: scialo scandaloso di ozii). Anche lei, probabilmente, era polacca, d’origine o di lombi, nonostante le fonti più moderne ed attendibili, la dicano nata a Mosca.

 

E molto conserva di quegli emigré nabokoviani, russi bianchi, che dilagano per l’Europa, a dissipare i pochi copechi rimasti, o l’argenteria di famiglia (è esattamente così, anche per lei. Ormai è più che famosa, ma per odi e contrasti interfamigliari, trascina quella vaga ricchezza di forchette all’asta, in un carretto, scenosamente guidato dalla stessa brillantissima Baronessa-pittrice).

 

TAMARA DE LEMPICKA SCATTO DI WILLY MAYWALD TAMARA DE LEMPICKA SCATTO DI WILLY MAYWALD

«Pittrice in voga ai tempi del sarto Paquin» scriveva, giustamente rifacendosi a questa sagoma déco, di torbida fatale androginia, l’adorabile romanziere (Gruppo 63) Giancarlo Marmori. In un memorabile volume 1977, Franco Maria Ricci, oggi sagacemente e più economicamente riproposto da Es-Abscondita: «Una signora dal nome arcano, probabilmente slavo, forse tratto dalla pseudonomia Art Nouveau, rediviva e a un tempo famosa pittrice degli Anni 20 e 30». 
 

Dopo dissesti, divorzi, forse suicidi del padre, la colta nonna Clementina, che la vuole edificare come «unica, ineguagliabile», la porta con sé, a Montecarlo. Per potersi imbucare al Casinò, mentre lei apprende la pittura in spiaggia, dipingendo sassi. Ma poi la vera «prova del nove» la raggiunge, quando entra in casa il ritratto, alla moda, della madre, realizzato da un’artista di grido.

DE LEMPICKA DE LEMPICKA

 

Ma Tamara la supera di getto, ritraendo, virtuosisticamente (è la sua cifra) la sorella Adrienne, che diverrà un’arredatrice di lustro. «Insomma, una figura dai contorni incerti e qualche foto, testimone della sua bellezza siderale, che sfiorò quella della Garbo e della Greffulhe»: noto prototipo della proustiana Duchessa di Guermantes.

 

Non faceva che parlare altro che della Garbo, Tamara de Lempicka, nelle interviste, e non della sua pittura, che fingeva di sprezzare (molta era finita, fortunosamente e fortunatamente, protetta, in soffitta. Dopo il veto anti-realistico del cosiddetto Terrore iconoclasta delle Avanguardie, che le aveva riservato reazioni e recensioni offensive. E per dieci anni lei s’era astenuta dall’agone volgare delle mostre mercantili).

 

Poi era ricomparsa con imprevedibili immagini sacre, di suore arcigne e mistici cuori trafitti, da parere più dei puntaspilli o delle piante grasse, che non dei simboli religiosi. Ma tutta la sua pittura è come ingessata, scultorea, «lunare». Carnosa come un cactus e laccata come un labbro morboso e reticente, da parere un’affiche glassata e meduseata, di quel mondo di diaspro esibizionista, pietrificato in una ventosità–foulard, da decappottabile glamour.

 

Eppure serrata ed indorata, come un gioiello di Cocteau-Schiaparelli, e misteriosa, come un sigillato incunabolo futurista: miniatura, ma in stile déco. Con la nonna (già nutrita di Ingres e di Lhote) nei viaggi italiani, scopre Pontormo, i pittori manieristi toscani, i nazareni raggelati ed i glaciali preraffaelliti. Ma poi quando visita Pompei, si mette scandalosamente a dipingere a tassello, col coltello, e diventa vagamente, provocatoriamente, «astratta».

 

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Mariti a bizzeffe ed amori saffici a gogò, con le «amazzoni» (più volte riprodotte, tra stivali da cavallerizza, frustini sadici e pose à la garçonne) che condivideva con altre celebri lesbiche cosmopolite, come Romaine Brook o Nathalie Barney. Il primo marito, russo, Lempicki, lo incontra ad un ballo di carnevale, travestita da pastorella polacca, con oca al guinzaglio; le regala una figlia, Kizette, tanto trascurata quanto decantata in pittura, in ogni possibile posa morbosa.. Il secondo, il Barone Kuppfer, le regala il titolo e non è meno stravagante di lei.

 

Per dire, quando le finanze latitano, tornano in Europa: ma uno in transatlantico l’altro in aereo (chissà chi risparmia?) e poi sì, la lascia, erede, ma con la curiosa clausola, che gli sopravviva almeno sessanta giorni. Figurarsi: lei regge, diventando una sorta d’icona consunta, ingioiellata e rapace, a mezzo tra Isaac Dinesen, Leni Riefenstahl e Diana Vreeland. Oggi si sa tutto di lei, grazie anche al lavoro ormai decennale di Gioia Mori, che le ha dedicato monografie e mostre, tra cui questa, originale, che vuol essere nuova, con aggiunte, inediti ed anche un corposo contributo documentale. Soprattutto sulle sue scenografiche case (una parigina, approntatole dall’architetto futurista Mallet-Stevens;

 

GABRIELE D ANNUNZIO GABRIELE D ANNUNZIO

ma poi San Pietroburgo, Huston, Cuernavaca, e la villa hollywoodiana ereditata da King Vidor) e la storia erotica mancata, con «l’orrendo nano in divisa», D’Annunzio, che lei vorrebbe ritrarre, per diventare famosa, ma lui tampina «la cammellona», sino in stanza da letto, spogliandosi nudo, a sorpresa («non sopporto la pornografia»: lo lapida lei, e lui se ne va mogio, per i corridoi, litaniando: «sono vecchio, vecchio, ecco perché non mi vuole». Con sotto braccio l’umiliato borsello per i grandi eventi erotici, cocaina e chissà che). Raccontato nel volume Es da una cameriera-amante assai esplicita: «tutto il Vittoriale che dipende da un solo pelo d’una attizzante Polonnaise»!). Ecco cosa si nasconde dietro la pelle impermeabile della resistibile Tamara.

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