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VUOI DIVENTARE UN'OPERA D’ARTE? SEMPLICE: FATTI UN SELFIE DAVANTI ALLA GIOCONDA - UNA MANIA CHE PIU’ VIENE VIETATA DAI MUSEI E PIU’ DILAGA IN SITI, LIBRI, MOSTRE DI OPERE D’ARTE “MODIFICATE”, NELLA QUALE VEDIAMO FIGURE DIPINTE DA DAVID O DA INGRES INTENTE A FARSI UN SELFIE CON UNO SMARTPHONE

1. # ARTSELFIE

Vincenzo Trione per “La Lettura - Corriere della Sera”  - http://museumofselfies.tumblr.com/

 

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Si chiama #artselfie . È un movimento spontaneo e diffuso, nato come costola di un collettivo, Dis, costituitosi a New York nel 2002, formato da Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Rosso e David Toro, attivo nell’organizzazione di mostre, di progetti e di piattaforme per il web, fondatore nel 2012 di una rivista online intitolata «Dis Magazine» (ne sono co-direttori Nick Scholl, Patrick Sandberg e S. Adrian Massey), concepita come forum virtuale dove filosofi, artisti, scrittori e dj discutono di cultura, di arte, di moda, di musica e di architettura, promuovendo anche la vendita di oggetti di diverso tipo.

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Da qualche tempo su «Dis Magazine», in maniera costante, vengono pubblicati selfie scattati da autori anonimi, accomunati dall’essere ambientati in musei o in gallerie di fronte a opere d’arte. Supplemento open source del magazine è il sito www.artselfie.com. Sono, queste, proposte che potrebbero essere lette come implicite risposte alla decisione di istituzioni prestigiose come il Moma di New York e gli Uffizi di Firenze, che hanno vietato l’ingresso di persone con i selfie stick o, come amano denominarli gli americani, con i narcissistick : i bastoni da selfie.

 

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Una selezione di questo vasto archivio è confluita in un volume intitolato proprio #artselfie , edito qualche mese fa presso Jean Boîte (introdotto da un testo di Douglas Coupland). Un’appendice di questo fenomeno è il Museum of Selfie creato dalla designer olandese Olivia Muus (che gestisce anche un blog sull’argomento): una pinacoteca di opere d’arte «modificate», nella quale vediamo figure dipinte da David o da Ingres intente a farsi un selfie con uno smartphone.

 

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Non siamo solo dinanzi a uno dei tanti divertissement che affollano quell’infinito labirinto senza vie di uscita che è la rete. Siamo, invece, al cospetto di qualcosa di più complesso. Piccoli esercizi visivi che confermano e, insieme, contribuiscono a ripensare radicalmente l’esperienza del selfie. Che, a sua volta, può essere interpretata come ribaltamento e come superamento delle regole poste all’origine della filosofia della fotografia classica. Per un secolo e mezzo, fotografare qualcosa o qualcuno è stato un atto quasi metafisico.

 

Si estrae un attimo dal flusso del tempo, per isolarlo da quel che è venuto prima e da quel che sta per avvenire, al fine di iscriverlo in una dimensione trascendente: si rende assoluto un istante, staccandolo dalla sua origine e dal suo destino; si acquisisce un barlume del passato, e lo si ripone dentro l’immaginaria teca dell’eterno presente.

 

Con il selfie la fotografia si secolarizza: dismette i suoi abiti nobili per indossarne altri più casual. Non si dà più come racconto di quel che ci è successo una sola volta né come strategia per rendere sacro un evento irripetibile ma diviene diario sulle cui pagine possiamo annotare quello che accade quotidianamente. Non vuole più arrestare l’istante ma si curva sull’ininterrotto mutare della nostra vita.

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Chi esegue un selfie tende a ridurre al massimo ogni stupore: ferma tutto ciò che gli capita, senza più distinguere quel che lo ha colpito davvero da quel che ha semplicemente incontrato. Per comprendere questa urgenza autotestimoniale, potremmo richiamarci a una pagina del Salon del 1859, in cui Baudelaire parla della fotografia come di un’«ancella piena di umiltà», utile per arricchire gli album dei visitatori, per adornare le biblioteche dei naturalisti, per migliorare le conoscenze degli astronomi, per salvare dall’oblio la memoria di luoghi e di situazioni.

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Non si tratta di una rivisitazione dell’autoscatto in una prospettiva 2.0. Mentre l’autoscatto assegna indipendenza al dispositivo tecnico — devi inquadrare senza soggetto, definire un tempo di attesa, andare verso il punto prefissato e attendere lo scatto, senza poter calcolare la tua espressione — il selfie consente un controllo assoluto dell’immagine che vogliamo dare di noi stessi. Utilizziamo lo schermo del cellulare come una superficie retroilluminata, in cui possiamo specchiarci e programmare (quasi) ogni dettaglio. Servendoci dello smartphone consegniamo all’ignoto pubblico dei social tracce del nostro desiderio di esserci a tutti i costi: pose che svelano il modo in cui vorremmo apparire agli altri.

 

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Si dà voce così a un esibizionismo feticista oggi dilagante. E si riafferma con forza la vocazione naturalmente erotica e narcisistica della fotografia, che da sempre si è offerta come avventura tesa a esercitare una forma di possesso e di dominio sul reale: «Il risultato è la conquista di qualcosa che altrimenti non si vedrebbe, (…) un lato oscuro che arriva inaspettatamente e rivela delle cose: un carattere, (…) un modo di stare al mondo», come ha osservato Roberto Cotroneo in uno stimolante libro recentemente uscito da Utet (Lo sguardo rovesciato ).

 

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L’#artselfie, però, potrebbe essere anche pensato come sfida ai cardini su cui si basa il selfie stesso. «È voi e in più è… arte!», ha detto con una formula felice Coupland. Gli animatori di questa mania planetaria sono giovani visitatori di musei che fotografano se stessi mentre stanno guardando un quadro o una scultura: da Leonardo a Caravaggio, da van Gogh a Koons, a Kapoor (per citare alcuni nomi di un elenco molto ricco).

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In tal modo arrivano a saldare devozione e profanazione: fanno un omaggio e, al tempo stesso, deridono alcune opere che li hanno particolarmente colpiti. Insomma, si comportano da ingenui barbari, impegnati a sbeffeggiare alcuni gioielli custoditi nei templi dell’arte. Scelgono determinate opere da contaminare con ironia e sarcasmo non perché ne conoscano il significato poetico, simbolico e culturale, ma perché le hanno già viste riprodotte un po’ ovunque o perché ne hanno subito il fascino istantaneo.

 

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Affidandosi a un comportamento ludico e inoffensivo, gli autori di #artselfie si pongono dinanzi a un capolavoro di Leonardo, di Botticelli o di Klimt come potrebbero stare accanto a un attore o a una rockstar: lo portano verso se stessi; se ne appropriano in maniera giocosa; lo assumono con disinvoltura; lo riconducono nel presente, generando icone prive di aura, piatte, senza spessore né profondità, che sciamano in rete come api e alimentano un fitto brusio.

 

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Sembrano reagire così ai riti propri di ampie regioni delle post-avanguardie contemporanee, spesso dominate da un concettualismo autoreferenziale ed elitario, incapace di comunicare con immediatezza. Infine, ci invitano a considerare l’arte non come un luogo già risolto in sé, disgiunto da noi, ma come uno spazio aperto, che potrà dirsi compiuto solo se verrà fruito, usato e forse anche abusato dal nostro corpo e dal nostro sguardo. In tal senso illuminanti i selfie «dedicati» alle sculture riflettenti in acciaio di Koons e di Kapoor.

 

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Siamo oltre il mito dell’opera ben fatta, curata in ogni parte con sapienza e dedizione. Siamo anche al di là del culto della bella immagine. Nell’epoca della rivoluzione tecnologica, fare una foto non richiede sforzi né preparazione professionale ma lascia intravedere solo una necessità intimamente documentaria. Non si sancisce una distanza critica dalle cose: si aderisce alle cose stesse. Negli episodi dell’#artselfie non contano la qualità delle ripresa, le inquadrature, le luci. Quel che conta sono il gesto rapido dello scatto e la condivisione sul web: il momento in cui decidi di mostrarti mentre sei vicino a un dipinto, pronto a rendere subito social il tuo autoritratto. Assistiamo al trionfo di un’inevitabile imperfezione.

 

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Del resto, si sa, ogni selfie è condannato a essere sbagliato: le posture sono artefatte, i volti deformati, talvolta mostruosi, perché troppo vicini all’obbiettivo del telefonino. Un po’ come accadeva in un autoritratto di Parmigianino (databile al 1524) in cui si vedono i tratti alterati del viso dell’artista-fanciullo riflessi in uno specchio convesso, mentre tende il braccio verso di noi.

 

Ma #artselfie è anche altro. Sembra rimandare alla condizione di un tempo come il nostro, in cui sta progressivamente declinando l’estasi della fruizione solitaria, privata, prolungata, meditativa, addirittura religiosa, dinanzi a un dipinto nelle stanze di un museo. Gli ignoti protagonisti del movimento guidato dal collettivo newyorkese Dis agiscono come i crociati di quella che Cotroneo nel suo libro definisce una sorta di rivoluzione tolemaica: per dimostrare che ormai «niente al mondo può esistere se non ci sei tu di mezzo», prendi il narcissistick e ti metti di fronte a un quadro o a una scultura. Espressione della deriva iperfotografica attuale, i tanti frammenti di #artselfie nascondono un limite: l’effimero. Sono destinati, infatti, a rimanere nell’alveo della fugacità: nei territori liquidi e immateriali della rete. Nessuno li svilupperà mai né li esporrà in un museo o in una galleria.

SELF PORTRAIT CON FRUSTA ROBERT MAPPLETHORPE SELF PORTRAIT CON FRUSTA ROBERT MAPPLETHORPE

 

È questa la ragione per cui Coupland ha prefigurato un futuro possibile per #artselfie. Il selfie 3D: presto ciascuno potrà stampare la propria effigie tridimensionale scontornata con una stampante 3D. Ci imbatteremo così in inattesi busti di plastica. Fotografie che avranno l’imponenza delle sculture. Forse solo allora #artselfie potrà lambire i confini dell’arte autentica.

 

 

2. MANGIO UN’INSALATA, SPIO LA GIOCONDA: PROVE DI AUTENTICITÀ ESISTENZIALE

Douglas Coupland per “La Lettura - Corriere della Sera”

 

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Conosciamo tutti bene il rito di chi al ristorante fotografa i vari piatti e ne pubblica le immagini online. A essere fotografate sono soprattutto le insalate, perché è nelle insalate che gli chef sembrano scegliere di esibire la loro vena artistica. Aspettate un secondo, lo metto su Instagram. Guardate i petali arancione del nasturzio sul piatto blu! Fotografare il cibo non è più una stravaganza, e ora nei ristoranti la gente brandisce l’iPhone con la stessa suprema nonchalance con cui una volta maneggiava i pacchetti di sigarette. I ristoranti avveduti sanno che le foto delle vivande possono incrementare notevolmente il loro giro, e il loop insalata/internet/insalata si autoalimenta.

 

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Ho una massima che sarebbe stata incomprensibile nel 1995: «Quando si fotografa un’insalata, la si trasforma in un fantasma». Intendo dire che quando si fotografa il cibo per pubblicarlo online, lo si sta già guardando al passato. Le foto di cibo che rendiamo pubbliche sono anche un modo per creare un’immagine di noi stessi. L’insalata è una sorta di alter ego, di avatar; una forma indiretta di selfie. Proprio così, di selfie — ma con questo non voglio criticare i selfie. I selfie sono in genere considerati una manifestazione di vanagloria strettamente collegata alla fine della civiltà, ma io non credo che siano poi così male.

 

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In un mondo di 7,7 miliardi di esseri umani, di cui tre miliardi sono ormai online, sviluppare un senso di sé autentico è molto più difficile di quanto non fosse prima — diciamo nel 2000. Molte persone ora hanno un blog, ma una volta, quando i numeri erano più piccoli, averne uno di successo era una possibilità concreta. Ora come ora, i blog non hanno più chance.

Qualche tempo fa ero in Islanda e ho sentito che un islandese su dieci scrive un romanzo. Sembra una bella cosa, ma il lato negativo è che ogni romanzo ha solo nove lettori. Il mondo ora si è trasformato in una grande Islanda: troppi contenuti e troppo pochi occhi.

 

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Come si collocano i selfie in questa nuova ecologia sociale? I selfie sono tentativi, più o meno riusciti, di creare un autentico senso di sé al cospetto del vortice di informazioni che cresce a ritmi esponenziali e in cui essere un individuo autonomo, con una vita particolare, sta diventando sempre più difficile, e si sta forse dimostrando una prospettiva d’altri tempi che potrebbe non essere utile o apprezzata nel mondo completamente connesso verso il quale stiamo andando.

 

Guardate! La faccia che sto facendo è quella che ho provato per anni davanti allo specchio del bagno! È la faccia del mio selfie. Guardate! Sono al museo d’Arte Moderna di New York e quella tela laggiù con le sgocciolature di Jackson Pollock sarà uno sfondo perfetto per la schermata iniziale del mio Android. Guardate! Ho mangiato un’insalata! Era unica! Era la mia insalata!

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