O LA BORSA O LA CINA – IN UN MESE I TITOLI CINESI HANNO GUADAGNATO IL 25% – MERITO DELL’INTEGRAZIONE TRA LE BORSE DI SHANGAI E DI HONG KONG – PECHINO VUOLE EMANCIPARSI DA WALL STREET

Fino al 2009 la quota degli scambi regolata in yuan era prossima allo zero, con tutta la liquidità investita in titoli di Stato americani. Adesso, sotto la regia dei collaboratori di Xi Jinping, la moneta cinese regola il 22% delle transazioni internazionali. E il rafforzamento della Borsa di Shangai fa parte di questa strategia…

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Ugo Bertone per "il Foglio"

 

Xi Jinping Xi Jinping

Il grande freddo è durato lo spazio di mezza giornata. Ieri mattina, dopo il tonfo della vigilia, la Borsa di Shanghai ha ripreso a salire: più 3 per cento, ribaltando i ribassi iniziali provocati dai nuovi regolamenti, più severi nei confronti della speculazione. Ma ci vuole ben altro per raffreddare l’effetto dello Stock Connect, la piattaforma unica che unisce da una decina di giorni il mercato cinese a quello di Hong Kong, piazza finanziaria aperta all’occidente. In un mese i titoli cinesi hanno guadagnato, in media, il 25 per cento.

 

La settimana scorsa gli analisti interpellati dal Financial Times e dall’agenzia Bloomberg si interrogavano sull’origine dei rialzi come fosse un enigma – è forse per via del rilassamento dei tassi da parte della Banca centrale? Ma allora perché salgono i titoli finanziari e non quelli industriali che dovrebbero essere i primi a beneficiarne? Sarà dunque una nuova bolla? Oppure è sintomo di un interessamento degli investitori cinesi per il mercato domestico? – quesiti rimasti aperti. Fatto sta che un fiume di denaro è piovuto sulla Borsa di Shanghai che, per volumi di scambi, ha scavalcato Tokyo, collocandosi al terzo posto tra i grandi Stock Exchange del pianeta, dietro Londra e New York.

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Non si sa per quanto tempo, vista la rapidità della crescita della finanza del Drago: nel 2009 la quota di scambi commerciali e finanziari regolati in renminbi era vicina allo zero. Oggi, sotto la regìa di uno stretto collaboratore di Wang Qishan, a sua volta stretto collaboratore del presidente Xi Jinping, la moneta cinese regola il 22 per cento delle relazioni da e per il paese del Dragone. Canada, Australia e Regno Unito hanno emesso prestiti nella valuta di Pechino. Francoforte, Lussemburgo e Zurigo offrono ponti d’oro alle banche del colosso rosso. Insomma, anche a oriente vale la regola inversa: rallenta l’economia reale, prende quota la ricchezza di “carta” che, senza tema di esagerare, promette di cambiare gli equilibri finanziari del pianeta.

 

In sintesi, seppure con gradualità, Pechino, innanzitutto, vuol ridurre se non azzerare l’enorme stock di titoli del Tesoro americani comprati a fronte del surplus nei confronti di Washington: in tutto circa 3.900 miliardi di dollari, frutto dell’export verso gli Stati Uniti e il resto dell’occidente dai tempi di Deng Xiaoping in poi. Invece di detenere questa ricchezza in titoli di carta (“che non ci hanno reso quasi mai niente…” sottolinea un anonimo banchiere in un colloquio con il Financial Times) la Cina punta a sfruttare il Tesoro in chiave politica, strategica ed economica.

 

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Crescono gli investimenti nel mondo occidentale (Italia compresa, come dimostra lo shopping in Piazza Affari e l’alleanza in Cdp Reti con Cassa Depositi e Prestiti), con l’obiettivo di incassare dividendi e di creare piattaforme per l’export a più alto valore aggiunto. Non solo. In questi mesi, Pechino ha dato vita a diverse iniziative internazionali: la New Development Bank, in cui ha associato i Brics (Brasile, India e Russia) anticipando larga parte dei capitali; l’Asian Infrastructure Investment Bank, alternativa al piano del presidente americano Barack Obama per isolare la Cina nel sud-est asiatico.

 

Infine, il “gioiello” cui Xi Jinping tiene di più: il Silk Road Fund, 40 miliardi di dollari (più o meno il doppio di quanto il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha messo al servizio del piano di rilancio dell’economia del Vecchio continente), per lanciare un gigantesco piano di crescita delle infrastrutture, dai porti sul mar Giallo fino alle piste che conducono vero il centro dell’Asia. Grazie alla nuova via della seta, è la sfida del presidente Xi, la Cina ritroverà il suo ruolo al centro del mondo, come avvenne ai tempi di Marco Polo.

 

Per dar corpo al “Chinese dream”, il nuovo sogno cinese, occorre però una potenza finanziaria ragguardevole e soprattutto indipendente, in grado cioè di emanciparsi dalla leadership globale di Wall Street. Di qui, dunque, l’investimento nella Borsa di Shanghai e di Shenzhen, e l’integrazione sempre più stretta con Hong Kong e, soprattutto, l’avvio di una lunga marcia verso una governance che piaccia agli operatori finanziari, così come ai risparmiatori indigeni, non pochi, in fuga dalla finanza ombra e da altre eredità della corruzione.

 

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Meno Rolex (la “mazzetta” più diffusa negli anni della crescita del prodotto interno lordo a doppia cifra) più azioni, insomma. Tutto nel rispetto del piano in dieci punti enunciato poche settimane fa dal premier cinese Li Keqiang. La rivoluzione della piazza finanziaria di Shanghai, in un certo senso, è anche una risposta alla protesta democratica di Hong Kong, insofferente del ruolo di vetrina di lusso del capitalismo rosso. La punta dell’iceberg di una trasformazione tanto ambiziosa quanto profonda del colosso d’oriente, approdato a un passaggio assai delicato dopo una lunga stagione di crescita record alimentata sia dai capitali in arrivo da ovest sia dalla moneta stampata a ritmi senza precedenti dalla Cina.

 

Xi Jinping si è assunto la grande responsabilità di azionare il freno: rallenta il pil che quest’anno, come non capitava dal 1997, non centrerà l’obiettivo di crescita previsto, il 7,5 per cento. E’ solo l’inizio perché, dice l’ufficio studi di Standard Chartered, dal 2016 in poi Pechino dovrà accontentarsi al più del 4-5 per cento annuo. Nessun paese al mondo, Taiwan e Singapore compresi, è cresciuto a ritmi consistenti per tanti anni. Con l’eccezione della Cina arrivata al 37esimo rialzo record con un grave prezzo pagato alla speculazione, edilizia soprattutto.

 

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Si deve cambiare rotta, dicono da tempo i leader cinesi, diventati abbastanza forti da reggere al malcontento della vecchia guardia che non concepisce altro progresso se non quello del fatturato. Sarà uno choc sia per i superstiti del partito sia per i tesorieri di Wall Street. La svolta voluta e perseguita dal presidente Xi Jinping, infatti, comporta non pochi problemi all’occidente, agli Stati Uniti in testa. Da almeno 15 anni il Tesoro americano conta sull’afflusso costante di denaro cinese nei forzieri di Washington. Oggi, anche perché l’export cinese verso l’altra sponda del Pacifico si sta inaridendo, il fenomeno s’è esaurito. Perciò, dicono i pessimisti, l’economia occidentale potrà contare su meno quattrini. Andrà così? Ancora una volta, forse, le Cassandre avranno torto. Ma è assai probabile che, tempo una manciata di anni, la nuova Wall Street avrà domicilio a Pudong, l’isola dei grattacieli di Shanghai su cui s’affaccia il fiume Bund.

 

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