michele ferrero

UN GENIO DI CIOCCOLATA – FRANZO GRANDE STEVENS RACCONTA MICHELE FERRERO: LA SCATOLETTA DEI TIC-TAC VISTA IN GIAPPONE – LA PRODUZIONE A PORTORICO PER INVADERE GLI USA – IL BREVETTO DEI MON CHERI SCRITTO IN ARABO E DEPOSITATO IN EGITTO PER SVIARE LA CONCORRENZA

Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano

 

Sono passsati decenni ma Franzo Grande Stevens, per una vita legale di fiducia di Michele Ferrero, è ancora incredulo mentre racconta la scena. Gianni Agnelli gli aveva chiesto di incontrare quell’imprenditore piemontese del cioccolato poco più giovane di lui che lo stava meravigliando con i successi mietuti in Europa e nel mondo.

 

FRANZO GRANDE STEVENS E ALAIN ELKANN - Copyright PizziFRANZO GRANDE STEVENS E ALAIN ELKANN - Copyright Pizzi

“Michele era persona schiva e nutriva un timore reverenziale verso l’Avvocato. Impiegai mesi a convincerlo. Quando finalmente riuscii a portarlo nell’ufficio di Agnelli, si presentò con la moglie e appena terminati i convenevoli allungò un plico al proprietario della Fiat. ‘Che cos’è?’”, chiese Agnelli. E Ferrero spiegò che quella busta conteneva il progetto per un’utilitaria. L’Avvocato sobbalzò e disse: “Sa, caro Ferrero, io di automobili non ne capisco niente, ma passerò volentieri la sua idea a Vittorio Ghidella”.

 

Fu così che l’allora capo del settore auto della Fiat si trovò per la mani i disegni della Cittadina, piccola vettura per uso urbano con la rivoluzionaria capacità di spostarsi lateralmente girando le quattro ruote di 90 gradi. “È per facilitare il parcheggio”, spiegava convintissimo Ferrero all’attonito Avvocato. “Non era uno schizzo, era un progetto vero e proprio a cui aveva lavorato con grande cura”, racconta Grande Stevens, “un’idea geniale che però gli ingegneri della Fiat scartarono perché la Cittadina sarebbe costata troppo e secondo loro non avrebbe avuto mercato”.

michele ferrero funerali   michele ferrero funerali

 

IL PADRE PIETRO E GLI INIZI DELL’EPOPEA

L’episodio riassume i caratteri fondamentali dell’epopea imprenditoriale di Ferrero, morto a Montecarlo il 14 febbraio scorso a quasi 90 anni. Non c’era solo la passione per la cioccolata, contratta fin da piccolo nel laboratorio di pasticceria del padre Pietro. Michele, entrato a lavorare nell’azienda di famiglia appena diplomato, senza bisogno di lauree o studi di ingegneria, sviluppò precocemente una sconfinata creatività nel campo delle macchine industriali.

 

“Avevo una vera passione per le macchine”, confessò nel 1967 nell’unica intervista concessa in vita sua per il libro Storia di un successo, pubblicato a Torino dalla casa editrice Aeda. “Dicevo a mio padre: papà, mandami a Parigi, Francoforte, Londra, New York, ma non a fare il turista. Io voglio andare a vedere macchine nuove e a comperarne”. Pietro Ferrero riluttava: “Sei giovane e troppo entusiasta. Va a finire che ti fregano”.

 

Il padre muore d’infarti nel 1949, quando Michele non ha ancora 24 anni e si trova alla testa dell’azienda familiare, insieme alla madre Pierina Cillario e allo zio Giovanni. Eredita un business ancora acerbo. Pietro Ferrero aveva inventato il cioccolato povero del Dopoguerra: partendo dal classico gianduiotto torinese (cacao con nocciole tostate e polverizzate), aumentò la dose di nocciole e sostituì il costoso e introvabile cacao con burro di cocco e altri grassi vegetali.

i figli e la vedova di michele ferreroi figli e la vedova di michele ferrero

 

Nasce così la Pasta Gianduja, confezionata in grossi pani avvolti in carta stagnola. Il fratello Giovanni li distribuiva con la sua Millecento. Con il giovane Michele c’è però il vero decollo. Inventa prodotti su prodotti. Prima della epocale Nutella ci sono il Sultanino e il Cremablock. E ogni nuova epifania del cioccolato povero era accompagnata dalla scoperta o dall’invenzione di una nuova macchina.

 

“Per il Cremablock”, raccontò Ferrero, “andai a Copenaghen a comprare una delle più gigantesche macchine esistenti allora”. Del resto l’abitudine a girare e carpire idee qua e là per il mondo non l’ha mai abbandonato. Raccontava a Grande Stevens che la scatola di plastica delle caramelle Tic Tac, che si apre con un dito, la vide in Giappone, e con il meccanismo di apertura gli venne in mente il nome. “Il prodotto ha sfondato negli Stati Uniti, ma all’inizio fu difficile per il peso dei dazi doganali americani. Anche lì ho aiutato Michele con l’idea di andare a produrre a Portorico, che godeva di un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti”.

 

Dunque è con Michele, figlio del pasticcere di Dogliani, che la Ferrero diventa grande. Il Cremablock (barretta da 36 grammi venduta a 30 lire) viene lanciato nel ’52, e l’anno dopo la produzione si moltiplica per sei. Quando arrivano i veri best seller si pone il problema dei marchi e dei brevetti. Ferrero è attentissimo al business anche nel senso più concreto. Ed è qui che entra in scena Grande Stevens.

Michele Ferrero insieme ai figli Giovanni (a sinistra) e Pietro (a destra)Michele Ferrero insieme ai figli Giovanni (a sinistra) e Pietro (a destra)

 

“Ero un giovane avvocato e venne da me la mamma di Michele chiedendomi due cose. La prima, di stare un po’ dietro a Michele: lei era preoccupata perché il figlio, nelle rare pause dal lavoro, andava in giro a velocità non del tutto moderata con la sua Ferrari. La seconda richiesta era di assisterli nell’acquisto di una vecchia filanda che un’organizzazione religiosa di Alba aveva messo all’asta. Loro volevano comprarla per farci un nuovo stabilimento, ma temevano che presentarsi con il nome Ferrero avrebbe fatto immediatamente schizzare il prezzo. Così io gli organizzai l’offerta anonima ‘per persona da nominare’ e l’affare si concluse bene”.

 

Poi fu la volta dell’operazione Mon Cheri. Quando Ferrero lancia la nuova pralina si accorge che c’è qualcuno che sta già usando quel nome, e rischia di subire una causa costosissima. D’altra parte è troppo tardi per cambiare in corsa un marchio che sta già avendo un clamoroso successo.

 

Torna in campo Grande Stevens: “Trovammo una soluzione molto brillante. Scoprimmo che a Cuneo c’era una pasticceria che da prima di tutti usava il marchio Mon Cheri. Andammo a Cuneo a la comprammo, direttamente. Così salvammo il marchio che ancora dopo più di cinquant’anni è fortissimo”.

 

Michele FerreroMichele Ferrero

Ma sul Mon Cheri c’era un altro problema, che poi si riproporrà con il Pocket Coffee. Il segreto di quel cioccolatino sta nella sofisticatissima tecnica che Ferrero studia personalmente per iniettare l’alcol dentro lo scrigno di cioccolato senza scioglierlo. Il rischio è che qualcuno gli copi l’idea. Grande Stevens propone di brevettare tutto. Ferrero recalcitra, con qualche buona ragione.

 

Mentre quando si brevetta un prodotto è facile scoprire se qualcuno lo copia, brevettare un processo produttivo e una macchina industriale è pericoloso: significa depositare all’ufficio brevetti l’idea e il progetto della macchina che si sta brevettando, cosicché ciò che si intende proteggere diventa pubblico e disponibile.

 

Al contrario dei prodotti di largo consumo, le macchine industriali possono essere clonate con una certa tranquillità: “Come faccio ad andare negli stabilimenti dei miei concorrenti a vedere se mi hanno copiato la macchina?”, si lamentava Ferrero con il giovane avvocato. Anche stavolta Grande Stevens escogita la soluzione astuta. “Mi venne in mente che c’era la convenzione internazionale grazie alla quale tutti i Paesi aderenti riconoscevano validità ai brevetti registrati in qualsiasi altra nazione firmataria.

 

FERRERO CAMERA ARDENTEFERRERO CAMERA ARDENTE

E siccome alla convenzione partecipava anche l’Egitto, consigliai a Ferrero di andare a depositare il brevetto per la macchina dei Mon Cheri al Cairo. Per un concorrente sarebbe stato difficile immaginare che proprio ai piedi delle piramidi c’era il segreto di Ferrero, e comunque il ponderoso documento era ovviamente scritto in arabo, dopo una lunga e laboriosa opera di traduzione, e insomma, a quei tempi era abbastanza improbabile che qualcuno andasse fino al Cairo a trovare e leggere in arabo la tecnica di produzione dei Mon Cheri”.

 

I BLITZ PER SPERIMENTARE

Ferrero era attento al prodotto. Se gli altri grandi imprenditori italiani della seconda metà del XX secolo – a cominciare dal numero uno, Agnelli – lo fossero stati un decimo di quanto lo è stato l’inventore della Nutella, oggi l’industria italiana non starebbe come sta, con le pezze al sedere. “Mi raccontò il suo segreto per la messa a punto dei prodotti – ricorda Grande Stevens – Aveva trovato un supermercato in Lussemburgo che accettava di mettere sugli scaffali i nuovi prodotti ma senza marchio Ferrero.

 

Alcuni incaricati facevano la posta all’uscita e intercettavano le signore che avevano comprato quelle cioccolate, offrendo loro un compenso per farsi intervistare. Andavano negli uffici e Michele dietro una parete ascoltava attentamente, e suggeriva le domande giuste agli intervistatori”.

 

Ferrero stesso amava infilarsi in incognito nei supermercati per assaggiare direttamente dallo scaffale ogni prodotto che lo incuriosisse o di cui temeva la concorrenza. In questi blitz, secondo le leggenda aziendale, era accompagnato da un addetto che raccoglieva le carte dei dolci assaggiati e se le portava alla cassa per pagare. Anni di lavoro prima di lanciare un prodotto, con l’idea che una volta impostolo al mercato sarebbe durato per sempre.

 

E così è andata, in fondo dal Mon Cheri alla Nutella, dal Brioss al Kinder, al Duplo, quasi tutti i prodotti Ferrero sono ormai alla terza generazione di consumatori. Molti nonni di oggi li hanno mangiati da bambini. Ma per arrivare alla messa a punto il lavoro era ossessivo. Il Ferrero Rocher ha richiesto sei anni di prove, imposte dal capo ai suoi manager con apposite sessioni di assaggio in cui si poteva arrivare a 70-80 campioni da trangugiare per confrontare le diverse versioni.

Ignazio Marino la Nutella e Francesco Paolo Fulci Ignazio Marino la Nutella e Francesco Paolo Fulci

 

Fino al giorno in cui i manager si ribellarono e chiesero il diritto di sputare come gli assaggiatori di vino. “Ferrero si portava il lavoro a casa – racconta Grande Stevens – e infatti nella villa di Montecarlo, dove ormai viveva da molti anni, aveva fatto costruire il suo personale laboratorio, dotato di tecnologie, forni speciali e anche personale che lo supportava, dove ha continuato fino alla fine a inventare nuovi miracoli di cioccolata”.

 

Attento al prodotto, Ferrero ha fatto della sua azienda una delle maggiori e autentiche multinazionali europee anche grazie a un’attenzione estrema al business propriamente inteso, cioè alle condizioni del contesto in cui i suoi prodotti dovevano trovare clienti e successo. Importantissima è stata l’alleanza con la Chiesa. Cattolicissimo, devoto della Madonna di Lourdes, Ferrero si assicura l’aiuto della Pontifica Opera di Assistenza, che distribuisce cioccolato Ferrero nella sua rete.

 

Il giornale della Diocesi di Alba, a metà anni ‘50, inneggia all’illustre concittadino: “La Ferrero ha saputo creare un prodotto dolciario alla portata di tutte le borse favorendone il massimo consumo tra le famiglie, le convivenze, i bambini delle categorie meno abbienti”.

 

L’azienda si espande ed è alla rete delle parrocchie che Michele si rivolge alla ricerca di operai e operaie da asssumere. L’unico scoglio è il lavoro domenicale, di cui Ferrero è pioniere per tenere dietro alla domanda impetuosa di cioccolato al succedaneo di cacao: per calmare il malumore ecclesiastico escogita la santa messa celebrata dal cappellano di fabbrica ogni domenica mattina nel cortile dello stabilimento.

 

Le forme di paternalismo incontrano il favore degli operai. Ferrero è stato senza dubbio un padrone amato dai suoi operai, che si sentivano rispettati. La prova tangibile di un rapporto senza frizioni eccessive si ebbe nel novembre ’94, quando la fabbrica di Alba fu devastata dall’alluvione del fiume Tanaro. Gli operai andarono volontariamente a ripulire la fabbrica dal fango e la misero in grado di riprendere la produzione nel giro di pochi giorni.

Gianni Letta con la Nutella Gianni Letta con la Nutella

 

Certo, in Ferrero l’attenzione al cioccolato sconfinava nell’ossessione: “Quando proposi a mia moglie di sposarmi le dissi: pensaci bene, se accetti sposi un uomo che ti parlerà sempre di cioccolato”. E quando nacquero i due figli, Pietro nel ’63 e Giovanni nel ’64, li portò subito in azienda. “Mi pareva giusto indicare agli operai i miei successori”, diceva orgoglioso quando i due andavano ancora all’asilo. È l’unico caso in cui la lungimiranza di Ferrero non è stata premiata dal destino: Pietro tre anni fa è morto d’infarto, come il nonno da cui aveva preso il nome, non ancora cinquantenne.

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