LIBERARE BANKITALIA: PERCHÉ UN ISTITUTO DI DIRITTO PUBBLICO HA COME AZIONISTI DEI SOGGETTI PRIVATI, LE BANCHE, CHE PER DI PIÙ HA L’INCARICO DI CONTROLLARE?

Paola Pilati per "l'Espresso"

"Se non ora, quando?". L'economista letterato che siede ai piani alti della Banca d'Italia sintetizza così, con un sorriso furbo, lo straordinario momento, propizio come un trigono astrale, che vive l'establishment di Via Nazionale da quando al Tesoro è arrivato un uomo dell'istituto centrale come Fabrizio Saccomanni. Niente più conflitti di potere, fine dei patemi da colonizzazione politica che avevano fatto arroccare i superbanchieri Giulio Tremonti regnante, il clima è dunque parso adatto per risolvere un vecchio problema. Anzi un tabù.

Quello dell'assetto proprietario della banca. Riassumibile in una contraddizione: Bankitalia è un istituto di diritto pubblico, ma ha come azionisti dei soggetti privati, cioè le banche, che per di più ha l'incarico di controllare. Contraddizione che gli uomini di via Nazionale respingono come un'eresia, una bassa insinuazione, anzi un affronto («Figuriamoci se abbiamo mai preso ordini dalle banche!»).

Ma la soffrono soprattutto da quando, per via delle successive aggregazioni bancarie, i due big del credito Intesa e Unicredit hanno visto ingrassare la propria partecipazione in maniera imbarazzante. Intesa ha direttamente il 30,35 per cento del capitale della Banca d'Italia ma, considerando tutto il perimetro del gruppo, il peso sale al 42,52 per cento; Unicredit detiene il 22,1. Insieme già potrebbero farla da padrone, ma sommando tutte le partecipazioni delle banche (vedi tabella a pagina 110) si arriva oltre l'80 per cento, che certamente non può controbilanciare né il 6,33 delle Assicurazioni Generali (peraltro settore anch'esso vigilato ora da via Nazionale), né il 5 posseduto dall'Inps.

Dunque sia il governatore Ignazio Visco sia il ministro Saccommani, il primo nelle sue Considerazioni finali, il secondo nel suo discorso all'Abi, hanno deciso di annunciare urbi et orbi, perché fosse ben chiaro a tutti, che sulla sistemazione dell'assetto proprietario di Bankitalia il cantiere era aperto e che avrebbero marciato come un sol uomo, procedendo a tappe forzate. Ma soprattutto tagliando alla radice alcune illusioni: nella nuova governance della banca non solo non ci sarà spazio per potentati, ma neanche per far allungare le mani dello Stato, in ogni sua forma.

Chi immagina un trasferimento delle quote in carico alla Cassa depositi e prestiti, oppure di un altro ente costruito nuovo di zecca per la bisogna, per quanto indipendente possa essere, è fuori pista. Il disegno di Tremonti di trasformare Via Nazionale in un satellite di via XX Settembre deve bruciare in dannazione perpetua. E allora? La parola d'ordine è: frantumare. Spezzettare, ridurre in piccole particelle, non più radioattive ma inerti, le quote nella banca. «Serve una proprietà dispersa», ragionano nelle segrete stanze, «con tanti soggetti ma nessuno in posizione dominante».

Insomma, lasciare lo stesso assetto, che in fondo ha funzionato bene, ma allargando la platea. E imponendo agli attuali pesi massimi di scendere. Il che vuol dire ridisegnare una governance della banca centrale che attribuisca agli azionisti alcuni diritti patrimoniali che finora non hanno avuto: primo fra tutti quello di trasferire le proprie quote.

E qui si entra nella delicata questione del valore della Banca d'Italia. Il suo capitale, fermo ai valori storici, è di 156 mila euro, più o meno il prezzo di un box auto in una grande città. Le azioni (300 mila) valgono 0,52 euro ciascuna. Il che vorrebbe dire che la quota di IntesaSanPaolo vale 47 mila euro, quella delle Generali poco meno di 10 mila euro.

Poca soddisfazione anche in termini di utile, visto che gli azionisti si sono divisi tra tutti a fine 2012 una sessantina di milioni. Se tutto fosse davvero così deludente, il problema si risolverebbe facilmente, ma così non è. Perché nei bilanci delle banche quella partecipazione è diventata più pesante nel tempo grazie a graduali rivalutazioni.

C'è chi ha esagerato, come la Carige, che ha dato al suo 4 per cento un valore di 800 milioni, e chi come le Generali ancora tiene in bilancio il suo 6,33 per cento a 184 milioni. Unicredit ha il suo 22 per cento a 285 milioni, Bnl il 2,83 a 117 milioni. L'Inps, invece, ha conservato il suo 5 per cento al valore storico di 7.800 euro. Come si può intuire, qualsiasi variazione di quei valori all'insù cambia la faccia di un bilancio.

Perché equivale a immettere liquidità, di cui sia banche (per i propri quozienti patrimoniali) che assicurazioni (per i cosiddetti solvency ratio), ma persino un ente previdenziale come quello guidato da Antonio Mastrapasqua, hanno grande bisogno. Ad avvantaggiarsi di più sarebbero proprio le banche maggiori, Intesa e Unicredit, che irrobustirebbero d'un colpo i propri quozienti patrimoniali senza faticare a chiedere soldi al mercato né alle Fondazioni.

«Le banche pretendono che Bankitalia valga un fantastiliardo», ironizzano in via Nazionale, «ma considerando che è un ente pubblico, per un soggetto privato dovrebbe valere zero, perché è di tutti». Come trovare un punto di equilibrio tra zero e il fantastiliardo? Uno studio firmato da Fulvio Coltorti e Alberto Quadrio Curzio stima il valore massimo partendo dalla consistenza patrimoniale di Bankitalia, che nell'ultimo bilancio è di 23 miliardi e mezzo. Ogni quota, quindi, verrebbe non più 0,52 euro ma 78 mila euro.

Ma includere nel calcolo le riserve valutarie del paese, e quindi riconoscerle come patrimonio di pochi, è considerata un'eresia. Dunque, l'orientamento che prevarrà è quello di stimare il valore partendo dal flusso dei dividendi. Lo studio citato arriva per questa strada a un valore di 1,6 miliardi dell'intera banca, cioè 5.350 per quota. Ma è un valore che può variare cambiando il tasso del flusso dei rendimenti futuri.

Ed è qui che si sta giocando la partita vera. Quanto alle banche interessate, in questo momento sembrano le tre scimmiette: "non vedo, non sento, non parlo". Hanno addosso gli occhi dell'intera finanza europea, quelli severi dei tedeschi e quelli avidi degli speculatori. E sanno che una mossa azzardata, una richiesta che faccia pensare a un'operazione a loro vantaggio, può essere fatale: sarebbero accusate di ottenere aiuti di Stato. E bocciate. Per aggirare il rischio, le idee non mancano.

«Visto che le banche devono dar vita al nuovo Fondo di risoluzione delle crisi», propone l'economista Marcello Messori, «quelle grandi potrebbero partecipare cedendo le loro quote di Bankitalia al Fondo a un prezzo da concordare. Le banche senza quote sarebbero incentivate a comprarle per entrare nel Fondo». Questo consentirebbe una sorta di mercato delle quote della banca centrale in un ambito chiuso e protetto. Resta un problema, che Messori non nasconde: «Qualcuno deve pur mettere la liquidità: ma può essere lo Stato?». Già: chi ci metterà i soldi?

 

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