EDITORIA, AMORE MIO - DALLO STREGA AL '68 ANTI-EDITORIA, ALLE "GROUPIE" DI MORAVIA: PARLA MARIO ANDREOSE, UOMO FATTO LIBRO - "RCS-MONDADORI? LE FUSIONI SONO INDISPENSABILI. TEMPI DURI, I NOSTRI"

Dai “voti di scambio che allo Strega ci sono sempre stati" agli editori “spendaccioni”, il direttore letterario di Rcs Libri ripercorre la storia dell’editoria italiana e ricorda, tra gli altri, Alberto Mondadori e Moravia: “Fino ai 50 anni era stato un salame con le donne. Dopo ci ha dato dentro, anche grazie al successo, che richiama le groupie. Non ci sono solo per le rock band”...

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Silvia Truzzi per “il Fatto Quotidiano”

   

Le primavere sono più di ottanta, eppure pare di vederlo ancora ragazzino, in alcune uggiose mattinate veneziane, saltar la scuola per rifugiarsi alla Marciana a leggere Gide, Malraux, Dos Passos, Saroyan. E qualche anno dopo nelle birrerie di Trieste mentre sfugge alla noia del servizio militare confabulando di libri – i Buddenbrook e la Montagna incantata – con un gruppo di nottambuli un po’ bohémien, un po' ragazzi perbene con studi regolari: tutti “thomasmanniani” di ferro.

 

Mario Andreose fa scivolare l'accento veneziano – imbastardito dai traslochi e dai viaggi – sul lunghissimo racconto della sua felice e lunga esistenza trascorsa fra Uomini e libri. Il titolo della biografia in forma di brevi capitoli è un omaggio a Valentino Bompiani, una specie di alter ego di Andreose, che attraversa molte di queste pagine e che negli anni Trenta fece tradurre Uomini e topi di Steinbeck da Cesare Pavese. Intanto, Venezia: “Sono nato nel 1934, all'ospedale civile a Campo Santi Giovanni e Paolo.

 

Non è un posto qualunque per venire al mondo: la chiesa intitolata ai due santi è uno dei più imponenti edifici gotici veneziani, scrigno di capolavori dell'arte , in mezzo c'è il monumento equestre del Colleoni di Verrocchio e a sinistra la Scuola di San Marco con quel meraviglioso trompe-l'œil cinquecentesco”.

   

Com'era Venezia durante la guerra?

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   Brutta, fredda e scura. Buia perché alla sera i lampioni erano oscurati per sottrarsi alla vista dei bombardieri. Erano anni in cui mancava il carbone, la legna, si bruciavano vecchi mobili per scaldarsi. Ricordo il rumore sinistro degli scarponi dei tedeschi che si erano acquartierati alla pensione Seguso. Fuori c'erano i sacchi di sabbia con una mitraglia rivolta al cielo.

 

Avevo un compagno di scuola la cui mamma, bellissima, era padrona della pensione dei tedeschi e amante di un ufficiale: quando m'invitavano a pranzo era una festa perché mangiavo bene. C'era un rifugio antiaereo che avevano costruito in campo, dove qualche volta di notte dovevo andare.

 

Mi svegliavano e mi portavano infagottato a sentire le donne oranti che dicevano il rosario e sentivo odore di urina, dei vecchi che si alzavano spaventati nel cuore della notte. Era un mondo piccolo la mia laguna. Avevo gli zii campagnoli che stavano dalle parti di Mirano, dove mi spedivano d'estate. Lì la guerra si avvertiva poco perché si mangiava di più: polenta, salame, fagioli. Ma averne! Quando vedo i bimbi di oggi scortati a scuola mi viene in mente che a nove anni partivo da Venezia con una valigia piena di sale, che serviva per la conservazione della carne e degli insaccati. E tornavo con la stessa valigia piena di salame e formaggio: un lusso.

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E a Milano quando arriva?

   Negli anni Cinquanta mi chiedevo cosa avrei fatto da grande. A Venezia c'erano stagioni meravigliose di cinema, musica e teatro. Ho visto Igor Stravinskij dirigere il suo Rake's Progress e poi il Tito Andronico con Laurence Olivier e Vivien Leigh alla Fenice e Le Cid , interpreti Gerard Philipe e Maria Casarès, con la regia di Jean Vilar. Milano la frequentavo, ci venivo in giornata, da solo. Sapevo che c'era Chet Baker che suonava all'Aretusa in via della Dogana: dopo il concerto prendevo un treno a mezzanotte che ci metteva sei ore per arrivare a Venezia. Faceva tutte le fermate, ma così non spendevo d'albergo e dormivo in treno.

   

Le piacevano già i libri?

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   Sì e mi piaceva anche scrivere. Una rivelazione era stata l'uscita di un nuovo quotidiano, Il Giorno di Baldacci. Lì leggevo delle cose che mi appassionavano: le cronache politiche di Giorgio Bocca, lo sport di Gianni Brera, Citati e Arbasino, che era già Arbasino il cosmopolita e ci dava ghiotte dritte, magari più di adesso. Morale: alla Mostra del cinema vedo Baldacci con Silvana Pampanini.

 

Mi avvicino e gli dico: mi piace moltissimo il suo giornale, vorrei lavorare per voi. E lui mi risponde: venga a trovarmi a Milano. Ma quando arrivo al Giorno, Baldacci se ne era andato e al suo posto c'era Italo Pietra. E dunque tutto svanisce. Non potevo tornare a casa con la coda tra le gambe. Così mi sono ingegnato e ho iniziato a collaborare con le case editrici.

   

Come ha cominciato?

   Allora bastava bussare a una porta. O anche andare al bar Giamaica: ti sedevi a un tavolino e ti mettevi a chiacchierare con quelli che lavoravano nelle case editrici. Anche allora c'erano lavori da esterni: la correzione delle bozze, gli indici analitici che erano la mia specialità. Dopodiché nel '59 su un giornale leggo un annuncio di lavoro per correttori di bozze. Era il Saggiatore, una nuova casa editrice.

   

Il Saggiatore di Alberto Mondadori.

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   Lo avvistavo all'Harry's bar, dove naturalmente io non entravo, ci passavo solo davanti a curiosare. E vedevo Mondadori con Hemingway, con Orson Welles: per me era un mito. Poi sapevo che era un poeta, e soprattutto leggevo i loro libri. Comunque, mi hanno fatto fare una specie di concorso di correzione di bozze e l'ho vinto. Ti assumevano con due lire anche allora, ma c'era almeno la sicurezza del posto fisso.

 

Così ho potuto scrivere a casa, non senza una certa soddisfazione. Una volta dentro ho capito che c'erano un po' di persone che non avevano tanta voglia di fare, e mi infilavo dappertutto: facevo quello che nessuno aveva voglia di fare. Uscivano dei libri con errori clamorosi, di sciatteria e trascuratezza.

 

Gli autori spesso lasciano andare. Certo non tutti: Giacomo Debenedetti non era così, Sciascia mandava dei manoscritti dove non c'era da cambiare una virgola. Moravia invece cambiava molto, mandava versioni nuove in continuazione. Ancora oggi non riesco ad aprire un libro e a non notare un refuso. Non dico nei giornali, poi.

   

I libri oggi?

   Sono peggiorati, molto più sciatti. Mario Spagnol teorizzava che era un limite a cui bisognava rassegnarsi. Negli anni Ottanta, durante una delle tante ristrutturazioni in editoria per tagliare i costi, nel gruppo Fabbri furono mandati via tutti i correttori di bozze, erano una trentina.

   

Poi a un certo punto smette di occuparsi di refusi.

   C'era un libro la cui pubblicazione ristagnava perché ritenuto troppo lungo in due volumi e qualcuno aveva pure tagliato ampie parti del testo. Era Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Mi offrii allora di tradurre le parti “censurate” e così venne pubblicata l'edizione integrale. La De Beauvoir e Lévi-Strauss erano di Einaudi, entrambi voluti da Cesare Pavese.

MARIO ANDREOSE E MARINO SINIBALDI MARIO ANDREOSE E MARINO SINIBALDI

 

Durante una delle ricorrenti crisi di liquidità dello Struzzo, Foa – il fondatore della Adelphi – che allora era segretario generale in via Biancamano, li cedette ad Alberto Mondadori. Aveva venduto i gioielli di famiglia per far cassa: un fenomeno non raro nell'editoria, come attestato dalla vicenda Rcs Libri di questi giorni.

   

Com'era Mondadori?

   Ho lavorato con lui undici anni. Era un po’ matto, a me piaceva molto. Aveva una balbuzie seducentissima: s’impappinava su certe parole che richiedevano più attenzione, che uscivano con una enfasi incantevole, non esagerata. Poi aveva dei vezzi da gran signore, un'acqua di colonia personale, si faceva fare le sigarette a Londra. Il tabacco inglese per me era legato a un ricordo lontano.

 

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Il 25 aprile a Venezia, io esco di casa e mi accorgo che qualcosa è accaduto dall'odore dell'aria. C'era un profumo di tabacco strano, diverso. Mio padre fumava il toscano, gli zii le Nazionali. Ho sentito questo odore: a poche decine di metri c'erano dei soldati neozelandesi che fumavano le Woodbine o le Navy Cut, sigarette inglesi che hanno una concia molto particolare.

   

Com'erano i rapporti di Alberto con la famiglia?

   Allora i figli dei padroni vivevano coi soldi dell'azienda. Alberto era uno che frequentava scrittori e artisti: dal resto della famiglia era visto come uno scavezzacollo. Facevamo delle riunioni residenziali nella sua casa di Camaiore: c'era un bellissimo pavimento su mosaico di Chagall, una cuoca veneta sopraffina. Lui aveva fatto in tempo a seguire un po' – non si è laureato – i corsi di Antonio Banfi alla Statale che aveva dato una nidiata di filosofi di grande spessore.

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Quando Alberto lascia la casa madre prima va a lenire in Svizzera gli eccessi derivati, forse, dalle frequentazioni hemingwayane. Poi fonda la casa editrice e chiama i suoi compagni di corso: Enzo Paci, Remo Cantoni, Luigi Rognoni e Dino Formaggio a cui si aggiungeranno Giacomo Debenedetti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Giulio Carlo Argan, Ernesto De Martino: questo gruppo di intellettuali è il primo nucleo del Saggiatore. Io ero caporedattore: stare al loro servizio è stata la mia vera scuola, la mia formazione editoriale.

   

Dopo il Saggiatore?

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   Bisogna premettere che il Sessantotto ha fatto malissimo all’editoria perché cade l'interesse per la narrativa: già il Gruppo 63 aveva fatto il suo per produrre libri illeggibili. Il Saggiatore non regge, viene messo in liquidazione. In più, i dipendenti occupano gli uffici della casa editrice: Mondadori ci rimase malissimo. Mi disse: ‘Ma come, perché fanno questo a me che sono un editore di sinistra?’. Gli risposi che a Parigi avevano occupato l'Odéon di Jean-Louis Barrault, non la Comédie-Française. Alberto voleva farmi socio del secondo Saggiatore, ma io mi ero appena sposato, avevo due bimbi piccoli. E avevo poca voglia di restare: quando i ragazzi occuparono, io mi trovavo dall'altra parte della barricata.

 

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C'erano un po' di dipendenti, ma anche studenti della Statale: gli uffici erano a due passi dall'Università. Ed erano sopra la sede del Clan di Celentano. Questo lo dico perché per mesi mi sono sentito dal mio studio le prove di Azzurro. Ovviamente la so ancora a memoria... L'occupazione funzionava come tutti gli esperimenti di quegli anni, finiva un po' a tarallucci e vino: ci si fidanzava quasi tutte le sere. In quel momento mi chiamano da Segrate, proponendomi di passare da loro a occuparmi di un settore che stava nascendo e che aveva sede a Verona dove c'era lo stabilimento tipografico. Erano le nascenti co-edizioni, libri progettati e prodotti con editori stranieri per dividere i costi e far lavorare le macchine della tipografia. A Verona avevo una bellissima casa in campagna dove venivano a trovarmi tutti.

   

Come capita al gruppo Fabbri?

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   La Fabbri era dell’Ifi, la finanziaria degli Agnelli: Dino Fabbri non poteva pagare il debito di un prestito dell’Avvocato e gli aveva lasciato l’azienda. Poi c'erano le case editrici Bompiani, Sonzogno, Etas che Carlo Caracciolo, quando nel '71 Valentino Bompiani lascia, si è trovato a gestire e che sono confluite successivamente nel gruppo. I manager che si susseguono di libri non s’erano mai occupati: a ricevermi per un colloquio in Fabbri è un amministratore delegato che proveniva dai cementi e sembrava un texano.

 

cesare romiti cesare romiti

A metà degli anni Ottanta Gianluigi Gabetti, il capo dell’Ifi, mi informa che la Fiat ha acquistato Palazzo Grassi per fare delle mostre, con Pontus Hulten – che aveva retto il Pompidou facendo cose meravigliose – come direttore artistico. E mi chiede di occuparmi dei cataloghi. Per vent'anni abbiamo fatto mostre meravigliose, la prima Futurismo e Futurismi, appunto con Hulten: uno svedesone di travolgente simpatia, ma con temibili scarti umorali, che si dissetava quasi esclusivamente di rosso fragolino, e che aveva avuto l'idea di sostituire i saggi tradizionali di ogni catalogo con un dizionario enciclopedico del Futurismo. Quando Cesare Romiti lascia la Fiat, alla domanda di un giornalista che vuole sapere quale sia stato il momento più bello dei suoi anni in azienda, la risposta è: l'acquisto di Palazzo Grassi. È stata veramente un'avventura meravigliosa.

   

E la Rizzoli?

   Per paradosso, mentre l'Ifi si teneva questo strano, per loro, oggetto, che era il Gruppo Fabbri, la Fiat era subentrata nel Corriere dopo il dissesto Rizzoli-Tassan Din-P2 e chi più ne ha più ne metta. E dunque nasce la grande famiglia Fabbri-Rizzoli: così fu Rcs.

   

In Uomini e libri scrive che ha rischiato il posto in Bompiani per aver voluto pubblicare American Psycho di Bret Easton Ellis.

   Il libro era stato preceduto da una bufera mediatica intercontinentale non senza qualche crisi isterica. Ricordo che andai dall'agente di Bret a New York, per ritirare una copia del dattiloscritto e un'impiegata mi disse che dovevo aspettare l'arrivo di un fattorino maschio perché lei quel testo non poteva nemmeno toccarlo: not even touch. Mario Spagnol alla Stampa aveva dichiarato che il romanzo, quand’anche di qualità letteraria, non andava comunque pubblicato.

 

Alberto Bevilacqua Alberto Bevilacqua

La cosa mi aveva sorpreso perché lo stesso Spagnol, pochi anni prima, aveva pubblicato con successo Il profumo di Süskind, il cui protagonista straziava le sue povere vittime con la stessa efferatezza di Patrick Bateman. Solo che Il profumo era un romanzo storico... Successe un tale casino che una collega arrivò a dirmi: ‘Se ti cacciano, siamo costretti a dimetterci tutti per solidarietà’. Mi salvò il posto Furio Colombo, presidente di Fiat Usa e presidente del Gruppo Fabbri-Bompiani. Un suo articolo su La Stampa riportò la questione nell’unico ambito che le competeva, quello della letteratura.

   

Capitolo Strega.

   Anna Maria Rimoaldi era una che ti guardava da sotto in su, come se non potesse sottrarsi al peso dei suoi pensieri. Bompiani una volta di lei disse: è più brava della Bellonci. Molti anni dopo lo raccontai ad Anna Maria: ne fu contenta ma non stupita. Una notte, era l'88, io ero a una Fiera del libro a Los Angeles. Squillò il telefono, io dormivo, Anna Maria mi svegliò perché sapeva che Bufalino non voleva concorrere: Sciascia lo aveva sconsigliato, visto che lui stesso era stato fregato, una volta arrivato in cinquina. ‘Le menzogne della notte è un libro bellissimo, deve essere in gara’.

 

GRAZIA LONARDI BUONTEMPO E ALBERTO MORAVIA GRAZIA LONARDI BUONTEMPO E ALBERTO MORAVIA

Quell’anno c’era un vincitore annunciato della Rizzoli, era Giorgio Montefoschi, presentato da Pietro Citati. Il quale alla vigilia del premio scrisse una recensione entusiasta del libro di Bufalino. Cominciava, più o meno, così: ‘È un autore con il quale vorrei sedermi e parlare’. Il povero Montefoschi si amareggiò moltissimo, Bufalino vinse.

   

È cambiato qualcosa a Villa Giulia?

   Oggi guardiamo allo Strega di quegli anni con una certa nostalgia: molti dei nomi passati di lì sono ormai consegnati alla storia della letteratura italiana. Ma non erano da meno le manovre elettorali, i voti di scambio, i ricatti. E lo ‘scandalo’ di certi esiti. La vittoria di Bevilacqua su Pasolini nel '68 provocò un tentativo di secessione a ‘sinistra’ ricucito con fatica in mesi di trattative. Moravia riuscì a vincere, con una raccolta di racconti (non inediti), quasi sicuramente come risarcimento morale per la condanna del Sant’Uffizio del '52. E Gadda, giustamente, se ne lamentò.

PASOLINI E MORAVIA PASOLINI E MORAVIA

   

Uno dei “suoi” autori è Alberto Moravia.

   A me piaceva moltissimo: era schietto, lucido, mai banale. Tutto quello che usciva dalla sua bocca era originale. Ti veniva spontaneo avere per lui cura e attenzione. Andavamo qualche volta al cinema, a comperarci una giacca: la sua era un’eleganza inimitabile. Una volta mi ha confidato che fino a cinquant'anni era stato un po’ un salame con le donne.

 

Le sue compagne erano molto impegnative, in particolare la Morante. Dopo i cinquanta ci ha dato dentro, anche grazie alla fama e al successo, che richiamano le groupie. Non rida: non ci sono solo per le rock band. Alberto poi aveva molto successo con le donne francesi.

moravia moravia

   

Nel libro parla molto anche del rapporto tra Bompiani e lo scrittore di Agostino.

   Li ho incontrati che erano già due vecchi, elegantissimi, signori. Fino al 1971, anno in cui Valentino cede a Caracciolo, li ha tenuti insieme la reciproca stima e la fortuna di quel sodalizio editoriale. Forse era un matrimonio d'interesse, ma ha funzionato benissimo.

 

Ogni volta che usciva un suo libro nuovo portavo personalmente a Moravia una copia nella sua casa in Lungotevere della Vittoria e lui lo prendeva in mano con l'emozione di un ragazzo. Una volta, il 26 settembre 1990, non ha avuto il tempo di vederlo perché se n'era andato poco prima, appena lavato e pettinato nel suo bagno, dove l'avevano trovato Enzo Siciliano ed Enzo Golino.

 

Il libro che gli portavo era Vita di Moravia scritto, non senza riluttanza, in forma d'intervista con Alain Elkann e in cui dedica solo sei righe al rapporto con Bompiani. Alla notizia della morte di Moravia, Valentino viene colto da un malessere con febbrone e non è in grado di partecipare ai funerali in Campidoglio.

 

elsa morante con moravia a capri elsa morante con moravia a capri

Da allora non è più stato lo stesso e non solo per il declino della salute. Due anni dopo Valentino pubblica sul Corriere, un mese prima di morire, un articolo che contiene un elenco dei suoi amici. Mi ci ritrovo anch'io. Sono 78 nomi, tra i quali manca quello di Moravia.

   

Lei è il direttore letterario di Rcs Libri. Che pensa della cessione a Mondadori?

   In una stagione più felice la Rcs aveva acquistato Flammarion, ed era in procinto di acquistare anche Editis, il gruppo francese che viene subito dopo Hachette: il patron di Hachette, Lagardère, era stato costretto dall'Antitrust francese a spacchettare la sua azienda perché era troppo grossa. Se Rcs avesse comprato Editis avrebbe avuto una parte importantissima del mercato francese. E i benefici derivati ci avrebbero forse risparmiato la situazione attuale.

 

umberto eco umberto eco

Ma l'affare Editis è tramontato e Rcs ha scelto l'affare spagnolo con Recoletos: sappiamo bene quali guai ha portato. Ora anche l'Antitrust italiana sarà costretta a pronunciarsi nel caso avvenga la transazione annunciata, perché il 40 per cento circa di quota di mercato sarebbe difficilmente digeribile da non pochi operatori del settore. Anche gli autori sono preoccupati. E lo hanno manifestato, capitanati da Umberto Eco. D'altra parte le fusioni e le acquisizioni, come avviene da qualche lustro negli Usa e in Europa, sono indispensabili alla sopravvivenza in una situazione di mercato recessiva, e lo stesso dicasi per i tagli dei costi a compensare i mancati ricavi. Tempi duri i nostri.

   

Forse anche pubblicare meno titoli.

   Anche. E pagare meno: il mercato dei diritti in Italia è sovrastimato. Per effetto di una competizione feroce che fin dagli anni Novanta c’è stata tra Rizzoli e Mondadori . La guerra degli anticipi per accaparrarsi gli autori ci ha procurato una fama di spendaccioni che lascia esterrefatti i colleghi di Paesi più affluenti del nostro. Anche perché uno degli argomenti usati dagli agenti letterari per ottenere condizioni migliori è proprio lo sbandierare l’offerta italiana.

Umberto Eco Umberto Eco

   @silviatruzzi1

 

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