VARGAS LLOSA NON CI STA. ‘STA ‘’CIVILTÀ DELLO SPETTACOLO’’ GLI FA PROPRIO SCHIFO E LO SCRIVE IN UN FORMIDABILE E PROVOCATORIO PAMPHLET

Mario Cicala per Il Venerdì di Repubblica

Mettiamola giù così, a postulato brutale, fantaletterario: se nel secolo 20 avessero dominato i rating editoriali di oggi, in libreria non troveremmo né Proust né Joyce né Musil. Non perché andati a ruba o slittati fuori catalogo, ma perché mai pubblicati. Troppo macchinosi, cervellotici, prolissi. Detto in linguaggio tecnico: pallosi.

Forse non ce l'avrebbe fatta nemmeno un capolavoro di audacia sperimentale come Conversazione nella Catedral (1969) di Mario Vargas Llosa. O no? Lui ci riflette. Poi sospira: «Beh, diciamo che sarebbe stata dura». Negli ultimi tempi, l'idea che il 21° secolo non sia - o sia sempre meno - un Paese per libri difficili lo secca moltissimo. Al punto da averci scritto su un libro, La civiltà dello spettacolo, in uscita in questi giorni da Einaudi.

Il titolo richiama La Société du Spectacle di Guy Debord, anno 1967, che cominciava così: «Tutta la vita delle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».

Quanto alle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione - cioè il capitalismo - Vargas Llosa non potrebbe essere su posizioni più opposte a quelle del sovversivo Debord. Però è allarmato lo stesso. E il suo libro si apre con un brivido cupo: «Oggi la cultura, nel senso attribuito per tradizione a questo vocabolo, è sul punto di scomparire. O forse è ormai scomparsa». Accoppata. Da chi? L'intrattenimento.

Un polipo gigante. Che allunga i suoi tentacoli vischiosi in ogni direzione: letteratura, arte, politica, giornalismo... Se non diverti non sei. Ma, secondo Mario Vargas Llosa, la cultura si atrofizza anche per eccesso. Essendo diventata una creaturona bulimica, onnivora: un concerto di Shakira, una sfilata di John Galliano, una cena al ristorante dello chef molecolare... Tutto si merita il bollino di culturale.

E Vargas Llosa non ci sta. Prendi i film: quando «si privilegia l'ingegno rispetto all'intelligenza, lo humour rispetto alla gravità, la banalità rispetto alla profondità - chi è proclamato icona del cinema ai giorni nostri? Woody Allen, che sta a David Lean o a Orson Welles come Andy Warhol sta a Gauguin o Van Gogh nella pittura, o Dario Fo a Cechov o a Ibsen nel teatro».

Un'insidiosa leggerezza si sarebbe impadronita anche della letteratura. MVL non pensa tanto alle sfumature di grigio dei bestselleroni planetari, quanto ai romanzi - giudicati troppo light - di un Milan Kundera, di un Paul Auster. O di un Haruki Murakami: «Caso interessante. Scrive libri molto facili, ma con un'apparenza di complessità che rassicura i lettori. Capiamoci: che esista anche questo tipo di letteratura mi pare un'ottima cosa. Ma se diventa tutto così, c'è poco da stare tranquilli». E infatti lui non lo è.

Contro l'arte adormidera, sedativa, difende la caffeina dell'inquietudine, del tarlo oscuro, persino della noia. Che nei secoli 19 e 20 fu possente propulsore artistico e che adesso si erge a grande tabù culturale. Soprattutto, vietato tediare. «È innegabile» concede Vargas Llosa, «leggere certi capitoli di Proust o di Musil significa lottare con la noia. Ma alla fine la fatica è premiata. Nell'intrattenimento invece ogni sforzo è sgradito, scoraggiato».

Della lettura, come della scrittura, Vargas Llosa custodisce una visione eroica. Magari enfatica. Di sicuro non intende elaborare il lutto di una cultura che ha liquidato il senso del tragico e, anzi, annette al comico una centralità smisurata, che sfiora lo strapotere: «Nella civiltà dello spettacolo il comico è sovrano»; «comici e buffoni» sono «divenuti maîtres à penser della società contemporanea. Le loro opinioni paiono rispondere a presunte idee progressiste ma, in realtà, ripetono un copione snobistico di sinistra: smuovere le acque, far parlare».

All'idealtipo del buffone istrionico, MVL riconduce anche due personaggi di grido che difficilmente avremmo abbinato. L'artista della provocazione Damien Hirst: «Perfetto esempio di come oggi un creatore non debba più giustificare il proprio talento attraverso le opere, ma diventando lui stesso uno spettacolo. Insomma, un bravo truffatore. Ma oggi agli artisti si chiede di essere dei grandi imbroglioni».

E poi il cyber-attivista Julian Assange, guru di Wikileaks: «Eroe della libertà d'espressione? Ma andiamo. Beffandone la segretezza, ha danneggiato molto più i governi democratici che quelli autoritari. Non per niente è protetto dal presidente ecuadoriano Rafael Correa: uno che fa chiudere giornali, che tiene la stampa del suo Paese sotto costante ricatto, che fa dei Tribunali uno strumento politico. Anche Assange obbedisce alla necessità di trasformare l'informazione in intrattenimento. In scandalo. Mentre la cultura era senso del limite».

Già, ma come si può ancora dissociare la cultura dal consumo? Come rivendicare il diritto a distinguere tra un'opera d'arte, una bella trovata e una semplice stronzata senza passare per reazionari? Mario Vargas Llosa - che non ha nulla di un puritano antiedonista - si è attirato con questo libro anatemi che ravvivano la già calda antipatia nutrita nei suoi confronti dalla Sinistra (qualsiasi cosa significhi questa parola nel maggio del 2013).

Nostalgico? Forse. Elitario? Di certo. Conservatore? No, da quando - negli anni Ottanta - voltò le spalle al gauchismo latinoamericano, non ha mai accettato l'appellativo. Continua a definirsi un liberale en el sentido clásico de la palabra, nel senso classico del termine. Ma allora perché si lamenta se anche nella cultura «l'unico valore che ormai esiste è quello fissato dal mercato»?

Che c'è di male per un liberale (nel senso classico della palabra)? «C'è che il mercato è un meccanismo freddo: fissa solo le regole del gioco - offerta e domanda - però manca di valori. Quelli dovrebbe metterceli la cultura. Che stabilisce gerarchie tra ciò che è importante è ciò che non lo è».

Rifiutando l'idea - a suo dire una distorsione marxista - che il liberalismo sia soltanto un pensiero dell'economia, tiene a ricordare: «Da John Stuart Mill a Karl Popper, da Adam Smith a Friedrich Hayek, Isaiah Berlin o Milton Friedman, tutti i grandi autori liberali hanno insistito sulla necessità di una vita culturale intensa, in grado di contrastare gli effetti distruttivi del mercato sulla civiltà».

Nonostante l'insistenza però le cose girano altrimenti. La merce si pappa tutto quello che le capita a tiro, cultura inclusa, piegandola alle proprie leggi di autoriproduzione: vendibilità immediata, innovazione folgorante, rapida obsolescenza e, hop, avanti un altro. Chi la frena? La risposta di Vargas Llosa può apparire disarmante: gli intellettuali. Ancora loro.

Malgrado nel pamphlet se ne denunci l'eclisse. Perché hanno sloggiato alla chetichella dal dibattito pubblico, dall'investimento civile, allontanandosi con ribrezzo dalla politica, rintanandosi nello specialismo, nel bigottismo tecnologico o, viceversa, tuffandosi nello show. «Che la scomparsa delle élite vada salutata come una conquista di democrazia mi è sempre parsa un'aberrazione» dice. «Le élite non andrebbero combattute, ma casomai fomentate. Se spariscono, va in fumo non solo la creatività, ma soprattutto lo spirito critico».

Eppure spessissimo, in quel 20° secolo di cui MVL rimpiange l'engagement, gli intellettuali hanno dato pessima prova di spirito critico. Non c'è messianismo totalitario che non si siano bevuti. «E infatti molto del loro attuale discredito viene da lì».

In un velenoso commento su El País, intitolato L'ultimo dei Mohicani, lo scrittore messicano Jorge Volpi, classe 1968, ha accusato Vargas Llosa di non voler difendere la cultura quanto piuttosto se stesso («diagnostica il tramonto degli intellettuali come lui»); e di essere tutto sommato un marxista camuffato sotto spoglie liberali: «Perché è così turbato?

In fondo, solo una cosa è cambiata: prima le masse lavoravano; adesso, lavorano e si divertono. Ma siccome non si divertono abbeverandosi alle fonti dello spirito sarebbero alienate. In compenso, la piccola borghesia illuminata è sempre lì. E non è nemmeno tanto piccola». E legge Vargas Llosa. «Diventato parte di quella cultura popolare che lui tanto fustiga come incultura».

Davanti a critiche del genere, MVL sorride. Dice di non sentirsi «uno spettacolo» e di guardare ai media - sui quali è piuttosto presente - solo come strumento per trasmettere le proprie idee. Nemmeno il Nobel irretisce un autore con le blandizie dell'entretenimiento? «Il rischio c'è. Però non è mica colpa del Nobel, ma della cultura del nostro tempo».

Del libro parecchie cose possono lasciare straniti: l'idea che nelle civiltà secolarizzate la cultura debba riempire il vuoto valoriale lasciato dal declino della religione; o la convinzione che la calca turistica nei grandi musei sia solo conformismo («Il numero non fa la qualità. La cultura non si è mai giustificata statisticamente»); oppure che - quanto a profondità - il cinema sia fatalmente subalterno alla letteratura.

Non solo i film di Woody Allen: pure quelli di Bergman, Bresson o Fellini. Mi conferma: «Guardi, sono un drogato di cinema. Ma non ho dubbi che quello della parola sia un mondo infinitamente più profondo di quello creato dalle immagini». E qui, forse, un sospetto di mohicanismo affiora.

 

VARGAS LLOSAHIRST La civiltà dello spettacolo, Mario Vargas LlosaLa civiltà dello spettacolo, GORE VIDAL E FEDERICO FELLINI FO E GRILLOROBERTO SAVIANO E JULIAN ASSANGE damien hirst-fuma-pisello-fuoriIl lato di For the Love of God HYMN DI DAMIEN HIRST

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