CASELLI CASTIGA L’INDEGNO SPROLOQUIO DEL BRIGATISTA SENZANI NEL DOCU-FILM “SANGUE”: “HA VOMITATO SULL’UDITORIO VELENI INTRECCIATI CON SILENZI VIGLIACCHI”

Gian Carlo Caselli per il "Fatto quotidiano"

Impossibile per me tacere dopo la "performance" del capo brigatista Giovanni Senzani al Festival di Locarno. Sono stato (con il collega Griffey) il primo giudice istruttore ad interrogare Patrizio Peci. Grazie alle sue rivelazioni ebbe inizio l'irreversibile crollo sia delle Brigate rosse che di Prima Linea, due bande armate sanguinarie che per anni hanno impestato il nostro Paese, dichiarando unilateralmente - dal buco nero della clandestinità - una guerra spietata.

Senzani - appunto - a questa collaborazione di Peci reagì con una rappresaglia di marca decisamente nazista. Ordinò e diresse il sequestro di Roberto, fratello di Patrizio. Roberto venne tenuto prigioniero per settimane in condizioni infami, sottoposto a maltrattamenti, a pressioni psicologiche inaudite. Poi fu ucciso vigliaccamente in una discarica il 3 agosto 1981. E ne filmarono pure l'esecuzione, distribuendo la cassetta un po' dovunque, senza vergogna. L'obiettivo delle Br era fargli "confessare" una panzana clamorosa, vale a dire che il fratello era stato arrestato non una ma due volte, e che dunque aveva agito da infiltrato in accordo con i Carabinieri.

All'inizio della sua prigionia, Roberto raccontò la verità e le Br la riportarono nel primo volantino. Di un doppio arresto neppure l'ombra. Poi riuscirono, coi loro metodi, ad estorcergli il falso, ma questo non gli salvò la vita. E Roberto Peci fu giustiziato solo perché fratello di Patrizio, il primo terrorista pentito.

Quelle del sequestro furono ovviamente settimane drammatiche. Di Patrizio Peci mi colpì la determinazione. "Ho detto la verità - ripeteva - ho scelto la strada della collaborazione perché è quella giusta. Il sequestro di mio fratello è una vigliaccata criminale e io non posso cedere". Ma soprattutto ricordo la fermezza dei familiari, pur nella disperazione e nella sofferenza.

Ecco perché mi è impossibile tacere dopo aver letto quel che Senzani ha dichiarato a Locarno in occasione della presentazione del film Sangue di Pippo Delbono. Stando alle cronache, con un racconto dettagliato, compiaciuto e cinico, senza un filo di emozione, il killer Senzani (notoriamente uno dei personaggi più ambigui delle Br) ha rovesciato sull'uditorio un'onda d'urto di ostinata violenza,vomitando veleni intrecciati con silenzi vigliacchi.

La sua rievocazione del calvario di Roberto Peci e in generale degli anni di piombo non contiene neppure un accenno di perplessità per le tragedie ed i tormenti inflitti ."Ciglio asciutto e tono da speaker della violenza", secondo Maurizio Porro del Corsera. Dice Senzani: "Abbiamo agito in un preciso contesto storico; abbiamo lottato; abbiamo sbagliato".

Troppo difficile - 32 anni dopo - dire anche "abbiamo sequestrato e segregato, ucciso, gambizzato e storpiato un'infinità di persone per puro fanatismo"? Invece , riecco il solito agghiacciante refrain: le Br lottavano per idee giuste, la loro storia è finita e oggi non sarebbe giusto darne un giudizio. Stupefacente, poi, apprendere da Senzani che "non abbiamo lasciato tracce", come se non vi fosse la scia infinita di quelle tracce indelebili che sono i lutti e le tribolazioni che ancora oggi costringono i parenti delle vittime a vivere un continuo dolore dell'anima che non lascia respiro.

Ovviamente, non ho titolo alcuno per interloquire sul piano del pregio artistico del film di Delbono, come non contesto la libertà di leggere gli anni della violenza terroristica con una chiave piuttosto che un'altra. Ma chi si scandalizza per le parole di Senzani non esprime affatto la finta morale di un paese che non ha mai fatto i conti col passato.

Perché i conti col passato non si fanno affidandosi esclusivamente a chi stava dalla parte sbagliata. Affidandosi a chi - come Senzani - confonde la rivoluzione con la "bassa macelleria" praticata dagli attentati terroristici del suo famigerato "Partito della guerriglia". Oppure affianca il funerale di Moro (la vittima) a quello di Gallinari (il carnefice).

Non sarebbe un discorso di verità. Anzi, si potrebbe correre il rischio di alimentare "un giustificazionismo storico che determina una sostanziale complicità postuma" (Cesare Martinetti su La Stampa), fino a quel fiancheggiamento della violenza - ora ipocrita ora inconsapevole, ma sempre irresponsabile - che ancora oggi serpeggia in quei settori della politica e della cultura che spensieratamente confondono violenza e dissenso.

 

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