1- L’ULTIMO LIBRO DI PANSA, SUL “POTERE INUTILE DEI GIORNALISTI”, SPARA SU FABIO FAZIO, SU EZIO MAURO, SU NICHI VENDOLA, SU MICHELE SANTORO SUL NEMICO (DI SEMPRE) GIORGIO BOCCA E TANTI ALTRI (MA, STRANAMENTE, PARLA BENE DE \"IL FATTO\"). E RISPARMIA LA DESTRA DI CARTA DI FELTRI & BELPIETRO (DOVE è \"LIBERO\" DI SCRIVERE) - 2- FRECCETTE AL CURARO SU \"REPUBBLICA\", IL QUOTIDIANO CHE LO HA CONSACRATO. NON È ELEGANTE, MA LUI SE NE FREGA. E SI SCATENA SU ezio MAURO: \"UN CAPARBIO, AGGRESSIVO, DIRETTORE-SEGRETARIO DI UN GIORNALE-PARTITO, PIÙ CARISMATICO DI MOLTI BIG DELLA CASTA PARTITICA, MA CHE NON RIESCE A FARGLI VINCERE UN’ELEZIONE\" -

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giampaologiampaolo pansa - copyright Pizzi

Luca Telese per \"il Fatto Quotidiano\"

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più.

Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra.

Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro.

fabiofabio fazio1

In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e \"i due mastini\" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po\' canaglie, ma simpaticissimi.

Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo \"il ciclo dei vinti\"), su cui ha cambiato clamorosamente idee.

EZIOEZIO MAURO

Non lo nega, anzi. Ma l\'amore ne esaltava la Resistenza e l\'eroico partigiano \"Infuriato\", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima \"quella comunista\", poi tutte \"le altre\"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa.

Anche in questo libro, per esempio, c\'è la storia del suo binocolo Zeiss, c\'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel \'\'Romanzo di un ingenuo\'\' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C\'è di nuovo l\'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in \'\'Ottobre addio\'\' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c\'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario.

VENDOLAVENDOLA

Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: \"Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini\".

Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l\'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: \"Ho una cartellina anche su di te\", e rideva.

Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del \"cartaceo\": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de \'\'Il dito nell\'occhio\'\', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: \"Massimo è gravemente atlantico\", \"cinicamente spoglio di dolore\", \"goffamente demagogico\", \"con una spocchia da statista neofita\", \"livido come i neon del metrò\". Conclusione dell\'autopsia: \"12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo\".

In fondo \'\'Carta straccia\'\', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E\' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: \"Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto\".

michelemichele santoro anno zero

A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di \"Beriatravaglio\" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: \"Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione\".

Memorabile l\'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all\'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: \"Ho letto l\'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista\".

Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal\'articolo una \"intervista doppia\" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo.

Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: \"Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c\'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica\". Archivio e castigo.

GiorgioGiorgio Bocca

2- QUEL GIORNALE-PARTITO CHE PERDE TUTTE LE ELEZIONI
Giampaolo Pansa per \"Libero\"

Il giornale guerrigliero? Tra un momento ci arriveremo. Prima è d\'obbligo rammentare un fatto impossibile da contestare. \"La Repubblica\" armata, con la spada pronta a tagliare la testa di Silvio il Caimano, non sarebbe mai esistita se non ci fossero stati i suoi lettori da combattimento.

Può sembrare banale dirlo. Tutti i giornali stanno sul campo perché c\'è chi li acquista e li legge. Ma per \"la Repubblica\" di Ezio Mauro questo rapporto è meno ovvio di quel che possa apparire. Dal momento che una parte dei suoi lettori è sempre stata arroventata, settaria e pervasa da speranze sanguinarie assai più del direttore e dei suoi commandos.

Ne ebbi la prova nell\'autunno 2009 grazie a un semplice test: analizzando con cura le lettere pubblicate dal quotidiano fra l\'11 settembre e il 20 settembre. Il mio fu un sondaggio dal basso, su fonti certe perché stampate con nomi e cognomi, che nessuno aveva mai condotto. E alla fine risultò un esercizio importante per capire quali fossero gli umori profondi dei tifosi di Mauro. Persone capaci di odiare e di amare con un\'intensità sorprendente.

CARLOCARLO DE BENEDETTI

L\'odio era tutto per il Cavaliere, considerato uno spirito del male disposto a compiere qualunque nefandezza. Dopo il giornale-partito, ecco il giornale- guerrigliero e infine l\'auspicio di un vero e proprio movimento politico. Se lo auguravano molti lettori di \"Repubblica\". (...).

Già, perché non fare di \"Repubblica\" una vera formazione politica? I militanti c\'erano, come risultava evidente anche da questo microcampione. I soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di molti big della casta partitica: Ezio Mauro, un tempo chiamato dai colleghi cronisti \"Topolino\". Non per deriderlo, bensì per segnalarne la velocità nell\'agire e la sottigliezza del pensiero.

Dal giorno che lasciai il Gruppo De Benedetti, non ebbi più il privilegio d\'incontrare Topolino di persona. Succede così nelle aziende molto compatte, animate non soltanto da un forte spirito di corpo, ma pure da una missione politico-ideale che diventa regola di vita.

ENRICO ENRICO BERLINGUER

Anche a \"Repubblica\", anzi soprattutto a \"Repubblica\", vigeva una norma ferrea. Dettata dalla convinzione superba di essere il meglio del giornalismo italiano. La norma diceva: chi se ne va, non esiste più, diventa un fantasma. Da ignorare, da cancellare, da dichiarare inesistente.

Per mia fortuna esisteva la televisione. Ed esistevano i talk show della Rai e di La7, quasi tutti di sinistra. È stato grazie ai loro conduttori, dei veri sultani rossi, che ho potuto osservare più volte, da vicino, il personaggio di Ezio. L\'ho visto nei telegiornali. Poi seduto sul sofà della Dandini. Quindi a spiegare che tempo faceva al cospetto di un Fazio dal cinguettio rispettoso.

Ma a colpirmi fu la sua apparizione a Otto e mezzo, il salotto della Gruber. Era la sera di lunedì 26 ottobre 2010. Non erano stati convocati altri ospiti e dunque Ezio stava faccia a faccia con la conduttrice. In un duetto solitario, diventato subito un monologo. Da una parte lei, vestita di nero Armani, smagliante, tutta sorrisi, intenta ad ascoltare il verbo di un dio in terra. Dall\'altra, il direttore di \"Repubblica\".

bobobobo staino

Topolino aveva appena compiuto 62 anni, ma sembrava assai più giovane. Piccolo, ben strutturato, il capello corto, l\'abito impeccabile, mi rammentò quel che aveva scritto di lui sul \"Foglio\" Alessandra Sardoni, una giornalista molto attenta ai dettagli: «Essere Ezio Mauro, da quattordici anni alla testa di \"Repubblica\", appare faticoso, talvolta. Ma sulla sua capacità di resistenza fisica, sull\'ingualcibilità psicomorfa, mai la testa reclinata, mai una mano tra i capelli, le testimonianze non mancano».

Volete anche la mia? Quella sera Ezio mi sembrò strapotente e arcisicuro. Spiegò con grande chiarezza quale fosse il compito di \"Repubblica\", l\'asse portante della democrazia in Italia, il ferro di lancia nella guerra per distruggere il Tiranno. Non ricordo le domande pro forma che gli rivolse la Gruber. Forse perché, in quel caso più che mai, non avevano importanza. In compenso ammirai Ezio. E mi dissi: ecco un vero gigante, lui si mangia a colazione tutti i presunti big della casta partitica.

Le ragioni della sua forza erano più di una. Prima di tutto, Ezio conosceva meglio di qualsiasi politico la regola cardine di chi parla alla televisione. Era quella di dire soltanto una cosa, ripeterla di continuo, con poche, intelligenti varianti. Nel suo caso, il messaggio era davvero uno solo: \"Repubblica\" è in guerra contro Berlusconi e, prima o poi, lo distruggerà.

ANTONIOANTONIO PADELLARO

La seconda carta nelle mani di Topolino era la chiarezza estrema nell\'esprimersi. Di solito, soprattutto in tempi di caos politico, davanti alle telecamere i membri della casta appaiono incerti, balbettano anche quando urlano, spaccano il capello in quattro, nella speranza di avere la meglio su chi siede di fronte a loro.

Certo, la sera del 26 ottobre 2010, il direttore di \"Repubblica\" stava da solo davanti a una Gruber in pieno innamoramento. Ma si sarebbe condotto nello stesso modo al cospetto di cinque contraddittori. E li avrebbe stesi con la propria arrogante convinzione di saperla più lunga di loro.

Quella sera pensai che Ezio avrebbe trionfato anche se avesse lasciato il giornalismo per scendere nel campo della politica, in modo diretto e formale. Del resto, era stato lui a dire al Partito democratico: «Anche a sinistra è arrivata l\'ora del Papa straniero». Intendeva l\'avvento di un leader nuovo, estraneo al condominio sfasciato delle tante sinistre. Sempre in contrasto fra di loro e incapaci di uscire dal ghetto asfissiante della propria storia, segnata di continuo dalla sconfitta.

MARCOMARCO TRAVAGLIO E ANTONIO PADELLARO

Intervistato da Marco Damilano, per \"l\'Espresso\", Ezio spiegò che cosa intendesse per un Papa nero: «Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità. Che offra una speranza di cambiamento e di vittoria». Topolino stava alludendo a se stesso?

Nel maggio 2010, \"Il Foglio\" pubblicò una stuzzicante paginata su Mauro, scritta da Marianna Rizzini. E dominata da una grande fotografia di Ezio che parlava in piazza durante qualche adunata anti-Cavaliere. Il titolo diceva: Il Papa straniero. Però il sottotitolo metteva già le mani avanti: \"Un\'ipotesi credibile, ma non troppo\".

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Del resto, guidare una corazzata come \"Repubblica\", e insieme alimentare la militanza rovente di molti lettori, non era facile. Neppure per un cuneese tosto come Topolino.
Tra la fine del 2008 e l\'inizio del 2009, i guai di \"Repubblica\" risultavano davvero tanti. Per cominciare, era emerso il conflitto fra Carlo De Benedetti e il figlio Rodolfo, il capo della Cir. Rodolfo non voleva più occuparsi di editoria. \"Repubblica\" e \"l\'Espresso\" rendevano sempre di meno. E Rodolfo sembrava deciso a disfarsene. Ma il braccio di ferro era stato vinto dal padre sul figlio.

EZIOEZIO MAURO

L\'Ingegnere aveva dichiarato che, fino a quando fosse rimasto in vita, non avrebbe mai venduto nessuna delle sue testate. E si sarebbe impegnato con rinnovata costanza a guidare il gruppo editoriale. Di persona, giorno per giorno, mantenendo un contatto continuo con il primo dei suoi direttori, Topolino.

Questo punto fermo, tuttavia, non aveva bloccato la crisi di \"Repubblica\". Il giornale di largo Fochetti seguitava a essere una corazzata in avaria. Bilanci da brividi. Previsioni di tagli occupazionali, anche fra i redattori. Pubblicità in calo. E una perdita continua di copie.
Un dramma, dopo tanti anni fortunati. Al punto che \"l\'Espresso\" aveva smesso di pubblicare i dati di vendita diffusi ogni mese dalla Fieg, la Federazione italiana degli editori di giornali. Per non evidenziare che il calo più forte nelle copie vendute era proprio quello di \"Repubblica\".

EZIOEZIO MAURO

Il black out tabellare dell\'\"Espresso\" non fu una decisione autonoma della direttora in quel momento in carica, Daniela Hamaui, signora gentile e tremebonda. Venne imposto da Ezio, nel modo spiccio che gli era solito. Un giorno, mentre usciva da \"Repubblica\" per la pausa del pranzo, s\'imbatté in uno dei vicedirettori dell\'Hamaui. E gli disse, a brutto muso: «Quando la smetterete di rompermi i coglioni con i dati della Fieg?». Bastò quella domanda ringhiosa per far sparire la rubrica per sempre.

Poi il quotidiano di Mauro scoprì un\'imprevista miniera d\'oro: la campagna sui disastri matrimoniali di Berlusconi e sulla passione del Cavaliere per le ragazze in fiore. Era la fine dell\'aprile 2009. E la lettera di Veronica Lario contro il marito, stampata in esclusiva da \"Repubblica\", fu come le rivoltellate di Sarajevo: l\'inizio di una guerra mondiale. Una guerra contro il premier, naturalmente. Una guerra che Mauro combatteva da sempre. Ma senza potersi giovare di un\'arma tanto micidiale.

EZIOEZIO MAURO

Un colpo di fortuna? Sì e no. Sappiamo che la fortuna aiuta gli audaci. E anche nella vita degli uomini qualunque c\'è sempre chi si prepara a essere fortunato. \"Repubblica\" si dimostrò assai più pronta di tutte le altre grandi testate.

La signora Berlusconi accusava il marito di frequentare bellezze minorenni? Se era così, bisogna cercarle queste fanciulle. E far parlare chi poteva svelarne i segreti. In questo modo nacque il caso Noemi. E il relativo caso del suo \"papi\", ovvero l\'incauto Silvio.
La campagna di primavera del 2009 rimise in moto la corazzata in avaria. Aumento improvviso di copie vendute, si disse almeno 30 mila. Aumento della pubblicità che languiva. Sconfitta dei giornaloni concorrenti, rimasti al palo. Trionfo mediatico del Noemigate anche presso la casta politica. Che sino al 2 giugno di quell\'anno ne parlò per ben 2.236 volte, come venne certificato dall\'attento \"ItaliaOggi\".

EZIOEZIO MAURO VAURO SENISE

A somiglianza di tutte le offensive militari, anche questa lasciò sul campo molte vittime. Le prime avevano il viso pallido dei critici che accusavano \"Repubblica\" di non parlare dell\'Europa, tema di un\'elezione imminente, bensì delle scopate, vere o presunte, del premier. Ma era un\'accusa facile da respingere. Un giornale parla di ciò che vuole. Semmai ne risponderà dopo, ai lettori e all\'editore.

La seconda vittima fu Dario Franceschini, in quel momento leader del Pd. Ezio Mauro gli impose una campagna elettorale diversa da quella che lui prevedeva di fare. L\'obbligò a recitare il copione scritto a largo Fochetti. Lo trasformò in un replicante dell\'inchiesta di \"Repubblica\". Dimostrando che un giornale-partito poteva essere molto più forte di un partito vero.

GiulioGiulio Anselmi Ezio Mauro Arrigo Levi

Verso la fine di quel maggio, venni invitato a Otto e mezzo per discutere di un mio libro appena uscito da Rizzoli, \'\'Il revisionista\'\'. Avevo di fronte la Gruber e un\'ospite tosta, Miriam Mafai. Dopo un po\' di parole sul Noemi gate, arrivati al dunque chiesi alle due signore: «Ma chi non vorreste mai avere contro di voi: Franceschini o Mauro?». Entrambe schivarono la domanda, esclamando sdegnate: «Qui il problema non si pone!». Però era chiaro che l\'uomo da non avere alle costole era proprio il direttore di \"Repubblica\".

EzioEzio Mauro e Giulio Anselmi

Non stentavo a capirle. Conoscevo Mauro da tanti anni. Non era soltanto il Topolino dei nostri scherzi di vecchi cronisti. Bensì un capo ciurma indiscutibile. Con un carattere d\'acciaio. E la memoria dell\'elefante. Capace di ricordarsi di un vecchio torto da nulla. Per rinfacciarlo a chi aveva osato mettersi contro. Ma pure lui aveva un piccolo problema, che non era in grado di risolvere.

Il problema era che la sua guerriglia a Berlusconi non riusciva a fargli vincere un\'elezione. Aveva perso nel voto politico del 2008, poi nelle comunali a Roma, passata a un sindaco di centrodestra, quindi le regionali in Abruzzo e in Sardegna. Il partito che Mauro guidava dal suo studio a \"Repubblica\" uscì sconfitto anche nelle elezioni europee del giugno 2009.

ERNESTOERNESTO FRANCO EZIO MAURO

Il povero Franceschini fu costretto a dimettersi. Per lasciare la poltrona di segretario del Pd a Pier Luigi Bersani, un politico poco in sintonia con Topolino. Anche perché sapeva bene che Ezio lo considerava un ferrovecchio della sinistra più vecchia. L\'unica battaglia che Ezio riuscì a vincere fu quella delle copie vendute.

Per un direttore, e per un editore, in fondo era il successo che contava di più. Nel settembre 2010, \"Repubblica\" si trovò a un\'incollatura dal \"Corriere\": 510 mila copie rispetto alle 522 mila di via Solferino. Mauro sostenne di essere diventato il primo in edicola. Puntare sulla militanza anti-Cav dei lettori si era rivelata un scelta trionfale. Il pensiero unico funzionava. Era un pensiero modesto. E come rivelano i messaggi dei lettori che ho citato, si riduceva a un solo grido: a morte Berlusconi! Ma era la sua traduzione sulla carta stampata a lasciarti stupefatto. Lo spiegò, con una sintesi efficace, un giornalista di sinistra, già direttore dell\'\"Unità\", Peppino Caldarola.

DeDe Rita Anselmi Ezio Mauro Arrigo Levi

Sul \"Riformista\" del 10 ottobre 2009, scrisse: «I giornalisti di \"Repubblica\" parlano tutti nello stesso modo. È forse il primo caso nella storia del giornalismo italiano di una così totale identificazione con le ragioni della propria testata. Sembrano usciti tutti dalla stessa scuola quadri. Sembrano tutti felicemente aderenti al centralismo democratico del nuovo giornale-partito. In anni neppure lontani, era difficile trovare due giornalisti dell\'\"Unità\" che la pensassero allo stesso modo. Il miracolo è riuscito a Ezio Mauro che ha selezionato una burocrazia di dirigenti politici da far invidia a quella esangue dei partiti».

Ma dove il pensiero unico non ebbe effetti positivi sulle vendite fu all\'\"Espresso\". Un esempio di crisi quasi suicida. E proprio per questo quasi fantozziano, vista la sua fama di settimanale iperintelligente. Uno dei motivi d\'orgoglio dell\'\"Espresso\" era sempre stato di essere diverso dal parente più importante, \"la Repubblica\". (...). Livio Zanetti, il direttore che aveva guidato la trasformazione dell\'\"Espresso\" da giornale lenzuolo al formato news magazine odierno, era un bastian contrario.

DARIODARIO FRANCESCHINI

Quando Eugenio Scalfari faceva il pelo e il contropelo a Bettino Craxi, lui pubblicava Il Vangelo Socialista proclamato dal segretario del Psi. Lo stesso atteggiamento di lontananza da \"Repubblica\" lo tennero direttori come Claudio Rinaldi e Giulio Anselmi.

Poi i tempi, e i direttori, mutarono. Le testate del Gruppo Espresso-Repubblica divennero una falange compatta. Impegnata a combattere la stessa guerra, contro lo stesso nemico, il caimano Berlusconi e con le stesse armi. Penso che anche per questo \"l\'Espresso\" seguitò a perdere lettori. Del resto, perché acquistare un settimanale per leggere le medesime cose che stampava ogni giorno l\'ammiraglia repubblicana?

Poco per volta, all\'\"Espresso\" arrivarono al copia-incolla sistematico. Era un approdo inevitabile per almeno un motivo. Il primo fu la fragilità professionale della direzione Hamaui. Alla signora non importava niente della politica. Non ne sapeva, né voleva saperne, nulla. La considerava una faccenda poco elegante, da evitare.

Ma \"l\'Espresso\" era sempre campato sulla politica. Anche madama Hamaui non poteva farne a meno. Pensò di aver risolto il problema sdraiandosi sulla linea di \"Repubblica\". E in questo modo diventò succube di Mauro, un giornalista molto più bravo e dotato di un carattere ferrigno. Madama Daniela ne aveva terrore. Sperava sempre di non sentirlo e di non vederlo. Come se fosse il mostro di Dronero, il paese natale di Topolino.

 

 

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