1. CHI E’, CHI NON E’, CHI SI CREDE DI ESSERE LUCA GUADAGNINO, IL REGISTA IN ODORE DI OSCAR CON "CALL ME BY YOUR NAME" CHE SBANCA NEGLI STATI UNITI E VIENE IGNORATO IN ITALIA
2. “DA GIOVANE ERO UN PROVOCATORE. UNA VOLTA COMPRAI UN LIBRO DEI NUDI DI LISA LYON E NE REGALAI UNA COPIA A UNA MIA COMPAGNA DI CLASSE PER IL SUO COMPLEANNO. LA MADRE DELLA RAGAZZA CHIAMÒ LA MIA PER PROTESTARE. LEI RISPOSE IN TUTTA TRANQUILLITÀ: “CE LO RIMANDI A CASA PERCHÉ È UN CATALOGO STUPENDO, CE LO TENIAMO VOLENTIERI NOI””
3. “AVEVO FATTO UN CORTOMETRAGGIO CON CLAUDIO GIOÈ E ZITA DONINI. C’ERA UNA SCENA DI SESSO ABBASTANZA ESPLICITA, LO MOSTRAMMO A TAORMINA, FU UNO SCANDALO E POI..." 

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Paola Jacobbi per Vanity Fair

 

LUCA GUADAGNINO LUCA GUADAGNINO

Nelle vecchie foto di famiglia dei Guadagnino, Luca è il puntino minuscolo in mezzo ai genitori, al fratello e alla sorella, isolati in spazi immensi, attraversati da luce africana. Nato a Palermo, ha vissuto la prima infanzia ad Addis Abeba, dove il padre insegnava. È tornato in Italia per frequentare le elementari a Palermo, dove era nato, per poi trasferirsi a Roma, a Milano, nel mondo.

 

Ma l’idea di un bambino africano, con vocazione alla libertà e all’esplorazione, è rimasta lì, da qualche parte dentro di lui, e deve avere caricato molte molle: curiosità, talento, cocciutaggine.

 

Al momento in cui scriviamo, il bambino di Addis Abeba ha 46 anni e il suo quinto film, Chiamami col tuo nome con i suoi interpreti  Timothée Chalamet  e Arnie Hammer hanno totalizzato: tre candidature ai Golden Globes, sei agli Indipendent Spirit Awards, una ai SAG Awards e hanno già vinto due Gotham, un Hollywood Film Award, tre premi della Los Angeles Film Critics Association, due dell’Usa National Board of Review, uno del New York Film Critics Circle, il premio del pubblico come miglior film al festival di Saint Louis, il Rising Star Award a Palm Springs. E non è che l’inizio.

TILDA SWINTON E LUCA GUADAGNINO TILDA SWINTON E LUCA GUADAGNINO

 

Sta iniziando la campagna in vista degli Oscar, fatta di proiezioni e cene, incontri in cui Guadagnino e i suoi attori sono messi sotto la lente d’ingrandimento dagli addetti ai lavori (e votanti ai diversi premi) di tutta Hollywood. L’ultima volta che un film di coproduzione italiana è arrivato così lontano è stato 20 anni fa e il film era La vita è bella di Roberto Benigni. Finì come sappiamo: sette candidature, tra cui quella a miglior film (non miglior straniero, categoria per la quale quest’anno è in corsa ‘A Ciambra di Jonas Carpignano), proprio miglior film in assoluto.

 

LUCA GUADAGNINO LUCA GUADAGNINO

Se vi domandate perché Chiamami col tuo nome non sia ancora uscito in Italia (succederà il 25 gennaio), sappiate che non un caso, ma effetto di una strategia. Presentato al Sundance a gennaio, a Berlino a febbraio, il film è scomparso fino ad agosto, quando è arrivato online il primo trailer, solo quello. Poco dopo è arrivato il “meme” con il ballo goffo di Arnie Hammer, in una delle scene del film.

 

Da quel momento, Chiamami col tuo nome ha girato tutti i festival possibili e immaginabili, una novantina in tutto, da Melbourne a Zurigo, per arrivare a un’uscita nelle sale, negli Stati Uniti e in Inghilterra a fine novembre, ovvero un mese prima della scadenza dei termini per essere presi in considerazione agli Oscar.

 

LUCA GUADAGNINO LUCA GUADAGNINO

Inoltre, mi dice Guadagnino seduto sul divano del suo appartamento milanese, «i miei due film precedenti, Io sono l’amore e A Bigger Splash erano usciti prima in Italia, con scarso successo e poi nei Paesi anglosassoni, dove sono andati infinitamente meglio. È stato deprimente vedere le sale vuote da noi, mi sono detto, insieme al distributore internazionale (Sony, ndr) che si poteva invertire la dinamica e vedere che succede». 

 

Nel frattempo, Guadagnino non si ferma. La sua agenda, campagna premi a parte, fa venire il mal di testa. Ha finito il remake di Suspiria con Dakota Johnson e Tilda Swinton (uscirà l’anno prossimo), sta per iniziare nello Sri Lanka un film con Jake Gyllenhall, Benedict Cumberbatch, Michelle Williams, colonna sonora di Ryuchi Sakamoto, a cui seguirà Burial Rites con Jennifer Lawrence: storia dell’ultima donna a essere condannata a morte in Islanda. 

 

Chiamami col tuo nome, a oggi il suo più grande successo, nasce per caso.

LUCA GUADAGNINO E GLI ATTORI DI CALL ME BY YOUR NAME LUCA GUADAGNINO E GLI ATTORI DI CALL ME BY YOUR NAME

«Ero stato contattato come coproduttore dagli americani che avevano comprato i diritti del libro (di André Aciman, pubblicato da Guanda, ndr) perché il film, fin dall’inizio doveva essere girato in Italia, con una prima sceneggiatura. Lo proponiamo a Gabriele Muccino che ci riflette un po’ su e poi lascia.

 

Poi pensiamo a Sam Taylor-Johnson, a Ferzan Ozpetek, a Bruce Weber, finché ci fermiamo per scrivere una nuova sceneggiatura. Ci lavoro io, insieme a James Ivory, pensando che lo avrebbe diretto lui. Ma i costi che aveva prospettato James erano troppo alti, allora si era pensato a una co-regia, poi alla fine l’ho fatto io, nonostante avessi da girare anche Suspiria. O meglio, proprio perché avevo un altro film da girare».

LUCA GUADAGNINO E GIORGIO ARMANI LUCA GUADAGNINO E GIORGIO ARMANI

 

In che senso?

«Un atto di vanità puro. Volevo provare a me stesso di essere in grado di fare due film in un anno solare, Chiamami col tuo nome a marzo, Suspiria ad ottobre. Volevo essere come Steven Soderbergh o come Rainer Werner Fassbinder. Una follia, ma non sono pentito».

 

Che cosa dice lo psicanalista di questa smania da performance?

«Non ce l’ho, lo psicanalista!»

 

Non ne ha bisogno, evidentemente.

«Sono felice, appagato, ho un compagno che amo profondamente e guadagno molto bene, sì lo so che in Italia pare volgare dirlo ma io lo dico lo stesso. Inoltre, da qualche tempo sono anche tutore di Martina, mia nipote, una ragazza meravigliosa, che mi fa sentire anche un po’ padre. È la figlia di mio fratello Jean Marie, che fa il poliziotto a Palermo e ha altri due figli. Lui e sua moglie, che sono separati, hanno mandato Martina da me, al Nord. Sono uno zio severo, la seguo negli studi e in tutto quello che fa».

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E lei com’era da ragazzo?

«Un provocatore. Passavo ore alla libreria Sellerio di Palermo e il primo libro fotografico che comprai fu un catalogo di Robert Mapplethorpe. Poi comprai anche quello dei nudi di Lisa Lyon e ne regalai una copia a una mia compagna di classe per il suo compleanno. La madre della ragazza chiamò la mia per protestare. Lei rispose in tutta tranquillità: “Ce lo rimandi a casa perché è un catalogo stupendo, ce lo teniamo volentieri noi”».

 

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Sua madre, Alia, è algerina, ha vissuto con suo padre in giro per il mondo, sua sorella Monica vive in Australia. I Guadagnino sono una famiglia cosmopolita. Un po’ come i Perlman, la famiglia di Chiamami col tuo nome?

«Diversi, però in effetti la risposta di mia madre sul libro di Mapplethorpe potrebbe essere la risposta dei genitori di Elio, il diciassettenne del film»

 

Diciassettenne che ha una relazione con un 24enne. Tema pericoloso di questi tempi.

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«La risposta che il film sta ricevendo negli Stati Uniti dimostra che il pubblico ha capito. La passione tra Elio e Oliver è in totale assenza di potere, in equilibrio, con il più giovane, addirittura, che fa la prima mossa. È un film sulla compassione e sull’amore, una risposta dolce a questo mondo di rabbia, furia ed egolatria.  Chi dice che è scandaloso, dimentica che Jennifer Grey aveva 17 anni e Patrick Swayze 24 quando girarono Dirty Dancing».

 

Ha mai avuto a che fare con Harvey Weinstein?

«No, mi sono sempre tenuto alla larga. Non sapevo che fosse uno stupratore ma sapevo benissimo come si comportava con i registi, da bullo arrogante. Vengo da Palermo e certi modi di fare mafiosi li considero inaccettabili da sempre. Inoltre, l’unico valore della filmografia di Weinstein sono i film di Quentin Tarantino, che è un genio. Per il resto, il cosiddetto canone Weinstein, è pura pacchianeria. Che ambizione è fare un film come Shakespeare in Love?»

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Qual è stata la sua scuola di cinema?

«Laura Betti. Venne a fare un incontro all’Università, io ero un suo fan, un siciliano allampanato di 22 anni. Mi presentai, diventammo amici. Ci unì subito la passione per la cucina, spesso cucinavo per lei. Le piacevano cose pesantissime, come il pasticcio di patate dove le proporzioni erano: due chili di patate, uno di parmigiano, uno di mortadella tritata.

 

Laura mi permise di essere una mosca invisibile alle sue cene dove passava chiunque: registi, politici e scrittori. Non mi filava quasi nessuno, perché ero un giovane sconosciuto, ma io osservavo e ascoltavo tutti. In Italia abbiamo questo problema della gerontocrazia. Infatti, qualcuno, ancora mi considera un giovane regista e ho 46 anni».

 

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Tra i problemi dell’Italia c’è anche il fatto che uno come lei, trionfante all’estero, è l’emblema del “nemo propheta in Patria”. I suoi film sono stati criticatissimi, anche fischiati a Venezia.

«Non dimentico la proiezione del mio primo film, The Protagonists, al Lido. Si accendono le luci e la sala grande, piena di gente, rimbomba di fischi. Ero avvilito ma ero anche contento perché era una reazione, una forte reazione. Forse, quei fischi, li ho ancora dentro, a livello inconscio. Infatti, ogni volta, prima di una proiezione, sono molto nervoso.  Le recensioni? Sono così abituato a quelle negative che mi sorprendono quelle positive, praticamente unanimi, che sta ricevendo Chiamami col tuo nome!

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Un’altra malattia dell’Italia è il concetto di “lesa maestà”, tutti si offendono troppo facilmente. Io no. Amo questo Paese, ma capisco le ragioni per cui la mia voce può essere meno compresa di altre. Il mio modo di fare cinema, radicalmente indipendente, molto molto molto (e li scriva tutti questi molto, per favore) pensato a partire dalla forma ha trovato resistenza da parte di un sistema culturale attaccato alla supremazia del contenuto».

 

Nel 2009, la commissione Anica che sceglie il film italiano da mandare agli Oscar la snobbò a favore della Prima cosa bella di Paolo Virzì, nonostante Io sono l’amore avesse già avuto dei responsi molto positivi negli Stati Uniti, in seguito provati da nomination ai Golden Globes e persino una agli Oscar, per i costumi di Antonella Cannarozzi. Se l’è legata al dito?

«Come si dice? Sic transit gloria mundi… È tutto passeggero e tutto relativo. Io sono l’amore ha avuto la porzione di successo che desideravamo. Dopo, mi hanno proposto un sacco di film su donne ricche e annoiate, che mi permisi di rifiutare: Carol, il Grace Kelly  con Nicole Kidman e soprattutto un  terribile film su Jackie Kennedy che non si è mai fatto. C’era una scena in cui Jackie e Lord Harlech stanno per fare sesso e due servitori gli tolgono di dosso delicatamente i vestiti».

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Perché lei è diventato produttore?

«Per via di una vicenda andata male, cioè il film Melissa P. Mi aveva chiamato Francesca Neri, che aveva comprato i diritti del libro. Vollero fare un test prima di far uscire il film e mi costrinsero a rimontarlo completamente. Fu un periodo nero, tra l’altro mio padre stava male e mori il padre di Walter Fasano, mio montatore di fiducia e amico fino ad oggi. Il film poi incassò molto bene e io andai dalla mia agente Graziella Bonacchi, che purtroppo oggi non c’è più, e le dissi, tutto baldanzoso: adesso voglio incontrare tutti, fare questo e fare quello.

 

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Lei mi rispose: Luca, tu sei radioattivo in questo momento. Il film, nonostante gli incassi, è stato detestato, Ciak lo ha messo tra i peggiori dell’anno. Al che io mi sono detto smettila di frignare, comanda tu il tuo destino. Avevo già cominciato a scrivere Io sono l’amore e mi sono messo a cercare le risorse per produrlo».

 

Conosceva già Tilda Swinton, avevate fatto The Protagonists insieme, le è stata di grande aiuto.

«Tilda ha creduto in me da subito, anche quando ero ancora una specie di Ed Wood. Avevo fatto un cortometraggio in 16 millimetri che si intitolava Qui, con Claudio Gioè e Zita Donini. C’era una scena di sesso abbastanza esplicita, lo mostrammo al festival di Taormina, fu uno scandalo e poi Claudio non firmò la liberatoria, quindi questo corto non si può più vedere. Siamo rimasti amici lo stesso.

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Comunque, in quel periodo io volevo girare un secondo corto e il protagonista doveva essere Giulio Scarpati. Avrei voluto che Tilda Swinton leggesse la voce fuori campo. Seppi che era a un evento a Palazzo Esposizioni a Roma e, come con Laura Betti, mi buttai. E lei mi diede ascolto, anche se poi quel corto non lo facemmo mai, ma poi è nata un’amicizia».

 

Che rapporto ha con la politica?

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«Da ragazzo, a Palermo, ero iscritto alla FGCI, la Federazione Giovanile Comunista. La cellula della mia scuola faceva un giornale, mi assegnarono le pagine della cultura. Andai a fare la mia prima intervista, a Moana Pozzi, che era in città. La pubblicarono, ma sopra il titolo, in puro stile italo-sovietico, c’era scritto “ci dissociamo da questa intervista perché la FGCI non promulga la pornografia ma non vogliamo censurare lo scritto del nostro compagno” . Stracciai la tessera e non votai mai più quel partito o le sue successive incarnazioni, tranne una volta a Roma, per sostenere Francesco Rutelli contro Gianni Alemanno».

 

E che cosa ha votato?

«Rifondazione Comunista e altre liste. Ora diranno che sono radical chic».

 

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Che cosa vuol dire esattamente radical chic?

«Non lo so!» (ride, ndr)

 

Perché non usa attori italiani?

«Li uso. Magari non quelli che appartengono all’immaginario corrente del cinema che si fa oggi, ma li uso. In Chiamami col tuo nome ci sono Marco Sgrosso ed Elena Bucci, sublimi attori di teatro.  Inoltre, sono stato io a spingere in alto le grandi potenzialità di Alba Rohrwacher. Certo, se posso pescare tra gli stranieri, ho possibilità di scegliere tra i numeri uno al mondo, perché non dovrei farlo?».

 

La accusano di raccontare solo i ricchi.

«La famiglia di Chiamami col tuo nome non è ricca, sono intellettuali».

 

Gli intellettuali sono snob?

tilda swinton in a bigger splash tilda swinton in a bigger splash

«Altro luogo comune. Chi sono gli intellettuali? In Chiamami col tuo nome abbiamo chiamato come consulenti degli archeologi per una scena. Sono intellettuali, studiosi che lavorano per proteggere il nostro patrimonio artistico ed evitare che vada in malora. Ce ne fosse di gente così”.

 

In Chiamami col tuo nome non ci sono i ricchi, ma in altri suoi film, sì. È affascinato da loro?

«Io sono l’amore parla di una donna sposata a un uomo dell’alta borghesia. Se decido fare un film su questo universo, non lo faccio a cazzo di cane, e la prego di scrivere proprio cosi. Io mi immergo nel mondo di questo personaggio, nei suoi dettagli.

 

La scena in cui la famiglia del film vende l’azienda tessile a un fondo inglese, cioè sceglie di entrare nell’astrazione della finanza e distruggere le proprie radici, è stata girata a Londra, in un palazzo che guardava il grattacielo della Lehman Brothers, nel giorno esatto in cui Lehmann Brothers crollò.

ralph fiennes e tilda swinton in a bigger splash ralph fiennes e tilda swinton in a bigger splash

 

Non è stata girata con il green screen in un ufficio di Roma Tiburtina. Francamente, non vedo spesso, nei film italiani, location così precise. E poi, che problema c’è a occuparsi della borghesia, fa anche questo parte della tradizione del nostro cinema, pensi Europa 51 o Viaggio in Italia di Roberto Rossellini. Mi preoccuperei piuttosto che, spesso, i film che vediamo non hanno proprio il senso della realtà, ecco».

 

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