IL CINEMA DEI GIUSTI ESCE FINALMENTE ANCHE IN ITALIA “LA ZONA D’INTERESSE”, UN’OPERA IMPORTANTE CHE CI RIPORTA ALL'ORRORE DI AUSCHWITZ, MA LA CHIAVE NON È FARCI VEDERE GLI EBREI CHE SOFFRONO E MUOIONO, MA COME VIVE NELLA SUA CASETTA IL COMANDANTE DEL CAMPO ASSIEME A SUA MOGLIE E AI LORO FIGLIOLETTI - L’ORRORE, LA BANALITÀ DEL MALE, CI VENGONO PRESENTATI PIANO PIANO NELLA QUOTIDIANITÀ DELLA FAMIGLIA E DEI SUOI DISCORSI… - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

Forte di ben cinque nominations agli Oscar, miglior film, regia, sceneggiatura non originale, suono, miglior film straniero, di ben tre premi ai Bafta, di un Grand Prix a Cannes e della forte distribuzione internazionale della potente A24, esce finalmente anche in Italia “La zona d’interesse”, il bellissimo nuovo film di Jonathan Glazer, che ritorna al cinema dopo dieci anni di assenza, visto che l’ultimo film era il fantascientifico “Under the Skin” con Scarlett Johansson in versione aliena mangia-uomini. Esce adesso in cerca di un premio che gli è stato negato a Cannes, dove gli era stato preferito il forse più innovativo “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, col quale condivide la stessa protagonista, Sandra Hüller.

 

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 A Cannes venne considerato forse troppo duro e freddo. Ma, rivisto adesso, fuori dalla competizione di Cannes, si rivela un’opera attenta e importante, meno legata al mondo di Michael Haneke come si potrebbe pensare da una prima visione più distratta. Tratto dal romanzo omonimo del 2014 di Martin Amis, morto proprio a maggio scorso durante il festival di Cannes, meravigliosamente fotografato da Lukasz Zal come fosse una fotografia dell’epoca col colore dell’Ufa, con un lavoro sul suono e sulla musica, di Mica Levi, che ci introduce da subito col grande nero iniziale in una dimensione di orrore, il film di Glazer ci riporta tutti a Auschwitz.

 

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Ma la chiave non è farci vedere ancora una volta gli ebrei che soffrono e muoiono come accadde in “Son of Saul” di László Nemes, che nel 2015 vinse il Grand Prix della giuria a Cannes e poi l’Oscar al miglior film straniero, ma come vive nella sua bella casetta il comandante del campo, Rudolf Höss, interpretato da Christian Friedel, che avevamo conosciuto ne “Il nastro bianco” di Michael Haneke, assieme a sua moglie Hedwig, interpretata appunto  dall’indimenticabile Sandra Hüller di “Toni Erdmann” e “Anatomia di una caduta” di Justine Trier, e i loro figlioletti.

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Dopo il titolo e l’ouverture a nero di grande effetto di Mica Levi, un nero che ritroveremo sul finale nell’unica scena reale dei forni di oggi, il film si apre su una scena di famiglia tedesca sul fiume in Polonia a prendere il sole e fare bagni, gli Höss. Il montaggio di Glazer è preciso e fa un lavoro sull’immagine minuzioso. Auschwitz, coi suoi camini sempre in funzione, ci viene mostrata solo nelle scene successive dietro il muro della casetta del comandante. E l’orrore, la banalità del male, ci vengono presentati piano piano nella quotidianità della famiglia e dei suoi discorsi.

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Hedwig parla con un gruppo di amiche e vengono fuori i diamanti trovati in un tubetto di dentifricio di una ebrea, la pelliccia tolta a un’altra, le sottovesti delle donne bruciate, la promessa di un po’ di polvere come concime da dare alla serva polacca. Più in là il figlio maggiore gioca coi denti d’oro tolti agli ebrei. Non c’è una vera e propria storia. Se non forse il fatto che Rudolf è stato trasferito e la moglie non vuole lasciare la casa dei suoi sogni. Una casa dalla quale sua madre, pur nazista e antisemita, fugge a gambe levate dopo averci passato una notte non resistendo alla visione dei camini dei forni crematori sempre in azione.

 

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Rudolf, assieme a un gruppo di ingegneri della ditta appaltatrice del campo, mette a punto un complesso di forni a ciclo continuo, in modo da eliminare, sentiamo, i 70.000 ebrei ungheresi che stanno arrivando. E’ un genio dell’ottimizzazione e perfetto esecutore della soluzione finale voluta da Hitler.  Glazer ha ricostruito in Polonia la casa e il campo, è attento al minimo dettaglio. Ci mostra un orrore che, sì, potrebbe ripetersi nella sua forma familiare da una parte e industriale dall’altra, come dimostra la logica della guerra attuale, il mercato delle armi e quello previsto della ricostruzione.

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E l’odio che dimostrano Hedwig e le amiche per gli ebrei, è un odio di classe. L’avidità della signora Hoss è l’avidità di una classe piccolo borghese che vuole sostituirsi a un’alta borghesia ebrea. Non è un film tanto diverso, nel suo aspetto politico e nel modello narrativo, di “Under the Skin”, anche se Peter Bradshaw su “The Guardian” ha tirato in ballo la vecchia critica di Jacques Rivette sul “carrello” di “Kapo” di Gillo Pontecorvo, cioè la pornografia cinematografica nel mettere in scena l’orrore di Auschwitz.

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 Lo stesso discorso, per molti, poteva valere anche per “Son of Saul”. Ma davvero non mi sembra il caso. Pensiamo al flash forward realistico che porta l’orrendo Rudolf Hoss, mentre scende le scale della festa finale, nella visione delle camere a gas di Auschwitz oggi. Glazer ha in mente un cinema diverso, solo a tratti vicino a quello di Haneke ma comunque molto artistico, molto sperimentale nella composizione dell’immagine e nel montaggio. Avercene. In sala da giovedì 22 febbraio.

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