"MIA MOGLIE MI DICE DI USCIRE, MA PER INCONTRARE IN GIRO DEGLI IMBECILLI PREFERISCO STARMENE A CASA" - GINO PAOLI CI INSEGNA IL LOCKDOWN MEGLIO DI QUALSIASI DPCM E IN OCCASIONE DEI 60 ANNI DAL SUO PRIMO ALBUM SI SPARA UNA BOTTA DI NOSTALGIA: "NON LAVORARE FA MALE, MI MANCA IL RAPPORTO COL PUBBLICO. SENZA AIUTI VERI LA MUSICA È MESSA MALE, MALISSIMO" - "QUELLA VOLTA CHE A SANREMO NON VOLEVANO FARMI ENTRARE PER IL MIO ABBIGLIAMENTO…"

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Guido Andruetto per "la Repubblica"

 

gino paoli gino paoli

È di buon umore, ma non esce di casa. Gino Paoli si è autoimposto il lockdown anche se potrebbe assentarsi dalla sua abitazione sulle alture di Nervi, tra gli alberi da frutto e le mimose che attendono di fiorire.

 

Questo è l'inverno più lungo anche per il cantautore di Genova, 86 anni compiuti a settembre. «Non lavorare è una cosa che mi fa male - dice - mi manca il rapporto col pubblico, la mia vita è fatta anche degli spettacoli e senza quelli mi sento incompleto. Sto a casa e aspetto».

 

Gino Paoli Ornella Vanoni Gino Paoli Ornella Vanoni

I ricordi delle migliori stagioni della carriera servono almeno ad alleggerire il clima pesante di questo periodo. L'interprete di Senza fine, Il cielo in una stanza e La gatta, festeggia i 60 anni del suo primo album pubblicato nel 1961. Quello stesso anno a Sanremo si presentò con Un uomo vivo.

 

Paoli, lei è stato anche presidente della Siae. Il settore della musica è duramente colpito dalle restrizioni e dalla crisi per il Covid. Come vede la situazione?

gino paoli gino paoli

«Male, malissimo. Dobbiamo pensare alle piccole realtà, a chi suona nei piano bar e nei locali, le orchestre, i gruppi, sono tutte persone che lavorano per mangiare, e quindi in questo momento sono alla fame. Calcoliamo poi tutto l'indotto che ruota intorno agli artisti, non solo quelli più noti. Se si ferma uno, si fermano anche i tecnici, i fonici, è un problema enorme per la categoria. Ci considerano quelli del divertimento, ma non è giusto. Servono aiuti veri per i lavoratori della musica».

 

ornella vanoni gino paoli ornella vanoni gino paoli

A livello personale come se la sta cavando?

«Il Covid non mi spaventa perché sto a casa. Mia moglie mi dice di uscire, ma per incontrare in giro degli imbecilli preferisco starmene qui. La nazione è fatta da una maggioranza di stupidi, persone incapaci di pensare con la propria testa che si fanno condizionare dai mezzi di informazione».

 

Continua a scrivere canzoni?

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«L'ho fatto per l'ultimo disco Appunti di un lungo viaggio, in una forma nuova. Ho scelto di trasgredire me stesso, il mio lavoro, il mio modo di scrivere musica. L'artista deve essere un trasgressore. Provo a scrivere cose diverse che vadano aldilà della canzone, le ho chiamate "canzoni interrotte". Oggi però vedo tutto con un certo pessimismo. Quando scrivo cerco sempre un orizzonte, non scrivo mai se non ho un orizzonte che esiste per me, e trovarlo diventa sempre più difficile adesso. Anche scrivere canzoni è diventato difficile a questo punto. L'orizzonte del mare è una grossa consolazione, ma non basta. Questo mondo malvagio, egoista, invidioso, può essere salvato solo attraverso l'amore. Amare significa andare verso gli altri, ma chi spalanca le braccia oggi? Vedi solo persone arrabbiate e chiuse».

 

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Sessant'anni fa usciva il suo primo album, "Gino Paoli". Che vita conduceva all'epoca?

«Ero un ex pittore che faceva ancora il pittore. Nel senso che non ho lasciato il mio mestiere quando ho avuto successo. Per un paio d'anni sono andato avanti normalmente. Vedevo la musica come una cosa aggiuntiva, per divertirmi. Da ragazzi suonare e cantare, magari sulla spiaggia, è una cosa normale, quindi per me era soltanto un gioco, che poi è diventato sempre più importante. Il successo è arrivato tra il 1961 e il 1962, ma io fino alla fine del '62 non ho smesso di lavorare come grafico, non credevo che la musica fosse la mia vita».

 

Il Festival di Sanremo del '61 per cosa lo ricorda?

gino paoli al festival di sanremo del 1961 gino paoli al festival di sanremo del 1961

«Si parlò molto del mio abbigliamento. Ricordo che mi presentai in teatro per una pre-esibizione o qualcosa del genere e all'ingresso il portiere non mi fece entrare per com'ero vestito. Sarei potuto tornare in albergo ma gli risposi che io lì dentro ci entravo come diamine mi pareva. Alla fine intervenne la casa discografica e trovarono la soluzione. Però a quel Sanremo cantai vestito come volevo io. Non misi lo smoking né la cravatta. Avevo una giacca e la camicia. L'unica stranezza, per così dire, erano gli occhiali che avevo comprato alla Standa e che poi diventarono di moda in quel periodo. Mi ero dimenticato di togliermeli prima dell'esibizione. Per cui la mia figura scura con questa montatura nera incuteva un certo turbamento. Henri Salvador, comico eccezionale, mi prese per i fondelli per parecchio tempo dicendo che sembravo un uomo morto che cantava Un uomo vivo».

 

gino paoli gino paoli

Sanremo è Sanremo.

«In quegli anni era un gioco al massacro. Mi ricordo Piero Focaccia, un ragazzo sveglio, simpaticissimo. Durante un festival ci trovammo la sera in un locale, era disperato: se domani non vinco mi uccido. Mi disse così. C'era una psicosi allucinante. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello. Modugno mi confessò che se la faceva ancora sotto, pur essendo avvezzo al palco. Al mio primo Sanremo la voce non venne fuori per un intero verso. L'emozione era fortissima. Però penso sia una questione di quanto metti di te stesso in ciò che fai».

 

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Il Festival diretto da Amadeus si avvicina. Ci tornerebbe?

«Ci sono già tornato tre anni fa con il pianista Danilo Rea. Al festival di Baglioni. Per me un palco è un palco e il pubblico è il pubblico. Che sia Sanremo o Canicattì in un teatro-tenda è uguale. L'importante è la relazione con chi ascolta, per trasmettere emozioni».

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