"IL PIRATA" SBARCA ALLA SCALA – MATTIOLI: FISCHI E UNA GAZZARRA TELEFONATISSIMA (CON I "MELOCHECCA" SCATENATI) PER IL GRAN RITORNO DOPO 60 ANNI DELL’OPERA DI BELLINI – L’EQUIVOCO DI MONTARE “IL PIRATA” NON PER IL TENORE, MA PER LA PRIMADONNA. PERÒ ALMENO AVEVA QUELLA GIUSTA. LA BULGARA SONYA YONCHEVA NON È SOLO UNA (GRANDE) VOCE…" - VIDEO

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ALBERTO MATTIOLI per la Stampa

 

Chi si rivede. «Il pirata» è una di quelle opere di cui si parla molto più di quanto non si vedano in scena. Il 27 ottobre 1827, alla Scala, segnò una tripla consacrazione: del melodramma romantico, in questo caso tutto pirati byroniani sempre innamorati delle antiche fidanzate nel frattempo malmaritate a baritoni gelosi, mentre la primadonna che sprofonda nella follia all’immancabile unhappy end;

 

di Vincenzo Bellini come portavoce operistico (provvisorio) della Milano romantica, ribelle contro i classicisti imperanti; e del tenore Giovanni Battista Rubini, la voce del romanticismo italiano, capace di dare alle astrali «cantilene» belliniane, come le chiamava la critica dell’epoca, i colori di una dolente eppur consolatoria nostalgia, sospirando con dolcezza acutissime melodie che sembrano avvitarsi su loro stesse. Ma tutto questo lo spiega molto meglio di come possa farlo io Luca Zoppelli nel saggio sul programma di sala che è la cosa migliore dell’attuale produzione scaligera.

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Qui «Il pirata», però, mancava dal 1958, dalle mitiche recite Callas (e Corelli, e Bastianini) durante le quali la Divina regolò anche i conti con il sovrintendente Ghiringhelli additato al pubblico lubidrio nel suo «palco funesto» durante la pazzia terminale di Imogene, delirante perché l’amato Gualtiero ha un appuntamento con la scure su un altro e meno vellutato palco.

 

Tant’è: da allora, «Il pirata», che pure è opera scaligera doc, a Milano non si è più visto, e per la verità poco anche altrove. Pesano sull’opera un problema e un equivoco. Il problema è quello di trovare un tenore che possa cantare con la tecnica contemporanea una parte folle che Rubini regolava con il suo registro acuto in falsettone. L’equivoco, di conseguenza, che «Il pirata» sia un’opera «da primadonna», quando invece, come dice il titolo stesso, il primo requisito è che ci sia un tenore. 

 

 

 

Sonya Yoncheva Sonya Yoncheva

In fin dei conti, anche l’Artusi (beninteso il gastronomo Pellegrino, non il musicologo cinquecentesco Giovanni Maria), inizia la ricetta, poniamo, del pollo arrosto con: «prendete un pollo». L’attuale gestione della Scala, che la vuole italianissima dopo il repertorio «global» di quel cattivone di Lissner, probabilmente ama il nostro repertorio più di quanto lo sappia fare, e di certo più di quanto lo conosca. Infatti è caduta nell’equivoco di montare «Il pirata» non per il tenore, ma per la primadonna. Però almeno aveva quella giusta. 

 

 

 

La bulgara Sonya Yoncheva ha un notevole volume, un timbro scuro, un po’ velato, più che bello molto personale, con qualche intubatura che può perfino ricordare quelle della Somma Greca. Limiti: talvolta in basso la voce suona un po’ poitrinée e in alto non è sfogatissima, i fiati inaspettatamente non sono lunghissimi, qualche passaggio di agilità è un po’ arruffato (specie quelli discendenti) e nel finale si percepisce qualche segno di fatica. Però, finalmente una primadonna vera. Yoncheva non è solo una (grande) voce. È anche una personalità: e l’ha imposta nella pazzia, che è poi l’unico momento interessante dello spettacolo.

SONYA YONCHEVA 3 SONYA YONCHEVA 3

 

 

 

Invece Piero Pretti come Gualtiero è uno dei consueti errori di casting della Scala. La colpa non è sua. È il tenore giusto nell’opera sbagliata. Chapeau, certo: Pretti è un professionista serio e pure coraggioso, nel senso che sa cantare e la sua parte micidiale la canta tutta. Fare dei sofismi su qualche passaggio d’agilità un po’ sporco o qualcuno degli innumerevoli sopracuti un po’ forzato sarebbe ingiusto. E poi si sforza di interpretare, scandisce bene i recitativi, fraseggia con cura. Insomma Pretti è bravo. Però non è Gualtiero. È come mettere un ottimo mediano a giocare da centravanti: certo, può farlo, ma è difficile che entusiasmi. 

 

 

 

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Come cantasse davvero Rubini non lo sappiamo e non lo sapremo mai, al netto delle sentenze dei vociologi, quelli serii e quelli da Bar Sport Facebook. Ma sappiamo che ciò che affascinava il suo pubblico era la capacità di affrontare tessiture acutissime, diciamo così, senza perdere la tenerezza. Ora, questo «quid Rubini», chiamiamolo così, Pretti non l’ha, com’era evidente fin dall’«Anna Bolena» della stagione scorsa. L’obiezione è che non l’ha quasi nessuno. Personalmente, credo che Maxim Mironov sia oggi il più attrezzato per queste parti, ma la Scala al momento è troppo grande per lui. Si potrebbe poi pensare a Juan Diego Florez o, meglio ancora, a Javier Camarena. Pretti è davvero ammirevole, ma non è il genere di protagonista per il quale la Scala possa montare un «Pirata».

 

 

 

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Brevemente, gli altri. Nicola Alaimo è Ernesto, il baritono marito di lei. Non è forse la sua parte migliore (anche piuttosto ingrata, per inciso) e le agilità della cavatina non sono sempre precise, ma Alaimo resta un interprete interessante, come si vede nel duetto con la donna. Eccellenti coro e comprimari, con menzione di merito per Riccardo Fassi, notevolissima voce di basso.

 

 

 

Al netto di una certa monotonia nei colori orchestrali, è buona anche la direzione di Riccardo Frizza. Questo repertorio apparentemente «facile» è in realtà difficilissimo anche per il direttore: qui gli accompagnamenti sono sempre centrati, l’uso del rubato giudizioso, il «peso» orchestrale ben calcolato. E non ci sono quasi tagli.

 

 

 

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Spettacolo «elegante» di Emilio Sagi, di quelli che piacciono alle sciure. C’è una scatola di specchi sormontata da un soffitto pure a specchi che permette dissolvenze vagamente cinematografiche. E poi: sfondi «neutri», costumi ottocenteschi (belli quelli di Imogene), recitazione abbastanza convenzionale e un finale a effetto, con lei che delira avvolta in uno sconfinato velo nuziale nero. Il grande pregio è che inscatolando il palcoscenico le voci guadagnano in volume. Per il resto, ci si accontenta.

 

 

 

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Infine, la cronaca. Alla prima, venerdì 29 giugno, c’è stata l’attesa telefonatissima gazzarra. Che questo «Pirata» non sarebbe passato indenne era noto e annunciato da giorni, con tutti gli indiziati del caso, dai vedovi Callas a quelli della Caballé (che alla Scala per la verità non lo cantò). Di certo, le voci delle balcony girls, specie quelle di sesso maschile, che si spolmonavano nei «buuu!» finali, erano quelle dei soliti noti. Soltanto che, non potendo umanamente prendersela con Yoncheva e con Pretti, hanno massacrato Alaimo, Frizza e Sagi molto al di là delle loro eventuali colpe.

 

Ma insomma si sa che con il biglietto si compra anche il diritto di contestare. È il solito folklore delle prime scaligere quando si fa il repertorio italiano, con stranieri allibiti che chiedono spiegazioni agli habitué, e capirai, business as usual. Intanto qualche spiritoso, ascoltando i ripetuti «Vergogna!» di una melochecca (non rompete con il politically correct, è una citazione, Arbasino) particolarmente scatenata, faceva notare: «Oh, finalmente il falsettone di Rubini!».

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