SANTA CECILIA, CANTA PER NOI – LA BARTOLI INCANTA SALISBURGO CON IL “BARBIERE DI SIVIGLIA” E MATTIOLI VA IN ESTASI: “IO LA SUA ROSINA L’AVEVO ASCOLTATA NEL 1989, A MODENA, QUANDO ERA ANCORA UNA RAGAZZINA MA SI CAPIVA GIÀ CHE ERA ANCHE UNA PREDESTINATA. ADESSO SONO PASSATI TRENTATRÉ ANNI, LEI È DIVENTATA LA BARTOLI, MA LA SUA ROSINA È INTATTA, AGILITÀ SGRANATE E VELOCISSIME COMPRESE, OGNI PAROLA CESELLATA, PESATA, DELIBATA, E PERFINO UN REGISTRO GRAVE PIÙ SCURO E CONTRALTILE CHE UN TEMPO. SIAMO IN ZONA PRODIGIO. CHI DICE CHE È UN BLUFF DOVREBBE, IN PRIMIS, FARE PACE CON IL CERVELLO, CONCESSO E NON DATO CHE NE ABBIA UNO…”

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Alberto Mattioli per www.lastampa.it

 

alberto mattioli alberto mattioli

Salisburgo, quarta e ultima puntata. Questo ipercinetico “Barbiere di Siviglia” era nato, in realtà, per il Festival di Pentecoste di cui Cecilia Bartoli è direttrice artistica. Con scelta giudiziosa, viene ripreso in quello estivo, all’Haus für Mozart stracolma con file d’attesa (solo virtuali, per fortuna) alla biglietteria informatica e fuori dal teatro concretissimi aspiranti spettatori con il loro bigliettino “Suche Karte”, nella speranza che qualche abbonato centenario abbia rinunciato la viaggio o abbia intrapreso quello definitivo. Ressa, insomma.

 

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Musicalmente, ne vale decisamente la pena. I Musiciens du Prince di Monaco, orchestra storicamente informata e di eccezionale qualità, dimostrano che non è affatto vero che Rossini non si possa suonare con strumenti originali, anzi.

 

E Gianluca Capuano, dal podio, ripensa radicalmente la partitura, con percussioni scatenate (in buca c’è anche un cappello cinese), accenti che cadono dove non t’aspetti, tempi funambolici, elasticità ritmica, abbellimenti à gogo, fortepiano onnipresente (ma non invadente), e improvvisi allargando per enucleare anche solo una parola nel grande meccanismo a orologeria rossiniano.

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È un Rossini del tutto nuovo, che non rimane ancorato alla pur gloriosa Renaissance e prova a immaginare il Rossini del futuro invece di replicare a oltranza quello del passato prossimo. Insomma, quel che dovrebbe fare e non fa Pesaro, lo fa Salisburgo.

 

Eccellente anche la compagnia. Intanto, sono tutti italiani o italianati, per cui i recitativi sono una meraviglia e non si perde una parola che sia una. Poi, quanto cantano bene. Nicola Alaimo è un Figaro in monopattino debordante di vita, di simpatia e di voce, la acuti compresi: ed è impressionante (e teatralmente vincente) come riesca a muovere il suo corpaccione con la grazia saltellante di un ballerino classico.

 

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Edgardo Rocha è un Almaviva formato tenore leggero ma anche con belle agilità di forza accanto alle grazie di tradizione; Alessandro Corbelli un Bartolo impressionante per la facilità (e velocità) dei sillabati dopo tutti quegli anni di carriera; Ildebrando D’Arcangelo un Basilio solidissimo, imponente, scuro ma non slaveggiante.

 

E poi c’è lei, Cecilia Bartoli. Ora, io la sua Rosina l’avevo ascoltata nel 1989, a Modena (per inciso, con Blake-Nucci-Antoniozzi: la provincia italiana dei bei tempi), quando era ancora una ragazzina ma si capiva già che era anche una predestinata. Adesso sono passati trentatré anni, lei è diventata la Bartoli, ma la sua Rosina è intatta, agilità sgranate e velocissime comprese, ogni parola cesellata, pesata, delibata, e perfino un registro grave più scuro e contraltile che un tempo. Siamo in zona prodigio.

 

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I neocellettiani che ci sfracellano i cabasisi con la lunghezza della carriera come infallibile segnale di buona tecnica (balle: e la Callas, allora?) e dicono che Bartoli è un bluff (un bluff da trentacinque anni di carriera e sette milioni di dischi venduti) dovrebbero, in primis, fare pace con il loro cervello, concesso e non dato che ne abbiano uno.

 

Lo spettacolo di Rolando Villazón, celebre ex tenore riciclatosi come factotum operistico, ambienta l’opera su un set cinematografico. La Sinfonia, durante la quale vengono proiettati spezzoni di film in bianco e nero con Santa Cecilia come eroina del muto, lei come Cleopatra o Giovanna d’Arco, è divertentissima.

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 Poi i personaggi entrano dallo schermo alla scena, tipo “Rosa purpurea del Cairo”, ma l’idea di perde un po’ per strada, o meglio viene sommersa da una bulimia registica dove si affastella troppo di tutto: troppe gag, troppe controscene, troppe mossette. C’è anche Arturo Brachetti che non si capisce bene cosa faccia, anche se ovviamente lo fa benissimo, e resta perennemente in scena in mezzo a quest’iradiddio di attrezzeria, costumi, citazioni, pupazzi, caccole. Per dirla alla romana, Villazón la butta in caciara.

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In quest’horror vacui quasi zeffirelliano l’opera buffa diventa troppo buffona, e benché i cantanti siano divertiti quindi anche divertenti, ci vorrebbe un umorismo un po’ più sottile e ironico. E non è una buona idea che il rondò di Almaviva sia cantato un po’ da lui e un po’ da Rosina. Comunque, al pubblico piace tutto, il citato rondò viene bissato e pure il vaudeville finale (però se un regista avesse inzeppato così “Le nozze di Figaro” si sarebbe scatenato l’inferno. Ma evidentemente qui la nuova immagine di Rossini post-Renaissance non è ancora pervenuta…).

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