TERZANI, L’ORSO DI ORSIGNA - Dal 1988, in segreto, il grande giornalista teneva un diario intimo, segreto. Epistolari, riflessioni politiche, invettive, domande: “Come hanno fatto gli italiani a votare per Berlusconi? Siamo fregati per sempre” – La moglie lo ha scoperto per caso e lo racconta in maniera struggente: “È il suo autoritratto. Dentro ballano stati d’animo, delusioni, disperazioni, alterchi, incontri, dubbi ed entusiasmi. c’è il dolore di una persona che cerca di trovare un centro di gravità permanente”…

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Colloquio con Angela Terzani di Malcom Pagani per l'Espresso

Ora, dice Angela Terzani, «è tempo di raccontare un altro Tiziano». E si siede, tra volumi di Régis Debray, teli indiani e ragnatele, al centro di un ricordo. Orsigna, tra Pistoia e il cielo, è un'astrazione appenninica. Quattro case nel nulla del tutto, dove il figlio di un meccanico comunista e una ventenne tedesca di stirpe diplomatica, si issarono al principio degli anni Sessanta.

MALCOM PAGANIMALCOM PAGANI

Erano due ragazzi. Le tasche vuote. I sogni incerti. La montagna di fronte. Le estati a incastrare le pietre di fiume, interrogare i castagni, pitturare le pareti, attenti a richiudere, al tramonto: «Il nostro sipario tra noi e il mondo». Angela è salita in macchina a Firenze e ha aperto un varco per "l'Espresso". Con un mazzo di foto sulle ginocchia, i capelli biondi, l'emozione incerta di chi spalanca il sacrario di un'esistenza.

MALCOM PAGANIMALCOM PAGANI

Intorno, mentre il sole della mattina si trasforma in pioggia e le zanzare danzano, l'ultima stazione del giornalista che narrò il Vietnam si rivela per la giungla che è. Tutto è scomodo, precario, essenziale. Le gocce battono su una tettoia di plastica, i tuoni rincorrono il silenzio, la natura veste chiome selvagge, i chiodi arrugginiscono, anche a 800 metri d'altezza. Angela ti offre un caffè, manca lo zucchero. Niente serve davvero, in fondo. I Terzani l'hanno capito.

Tavole di legno, mura rosse, persiane grigie, salici piangenti e, intorno, la valle. Dietro il velo, un'empatia profonda tra luoghi e persone. Una semplicità da pionieri. Dopo quasi mezzo secolo di pericoli e viaggi, nel luglio di sette anni fa, Tiziano Terzani venne a morire qui, nel posto «più esotico» della sua geografia sentimentale. Dove le fiabe, le streghe e i contrabbandieri si smarriscono nella leggenda e i daini, di notte, si riappropriano del territorio. Esplorano il giardino. Smuovono il terreno. Scavano buche. Bussano alle stanze.

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La sua è intatta. Sembra una cella. Travi di legno. Lo spazio per il letto. Due mensole, qualche libro, una finestra. Meno del lusso, più dello sfarzo inteso da Tiziano. Asceta e gaudente. Indefinibile. La testimonianza dell'addio ("La fine è il mio inizio") l'ha accudita il figlio Folco, dopo tre mesi di conversazioni all'ombra di un albero e protocolli farmacologici rifiutati dal padre non sempre con garbo. «Ascoltava i dottori e poi li congedava: "Lei parla di cure, ma non mi conosce. Crede di avermi capito. Non ha capito nulla"» sintetizza Angela. Era un inganno anche quello. La necessità di non dover sostenere, oltre al peso della malattia, anche quello della spiegazione inutile.

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Terzani si ammalò nel '97. Lottò. Perse. Nell'ultimo tratto di strada, dopo aver cercato rimedi ovunque, si abbandonò al destino. Lasciò le medicine nel cassetto. Meditò. Immaginò di ricongiungersi alle vette himalayane e la consapevole accettazione della fine, sussurra Angela cercando un punto davanti a sé: «Lo aiutò a non soffrire fisicamente».

Nei molti abiti che l'ex impiegato dell'Olivetti indossò, sua moglie ha sempre scorto la stessa veste. «Era duro e passionale. Contraddittorio». Ha scritto di presidenti e operai, treni a vapore e torture, rivoluzioni e violenze. Il sollievo dall'apocalisse quotidiana era picchiare la Lettera 22. «Aveva un occhio curioso. Parlava con tutti e diffidava dei potenti. "I governanti mentono per contratto Angela, sono pagati per non dire la verità"».

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Dal 1988, in segreto, Tiziano Terzani teneva un diario intimo, segreto. Epistolari, riflessioni politiche: «Come hanno fatto gli italiani a votare per Berlusconi? Siamo fregati per sempre», invettive, domande. La signora Staude lo ha scoperto per caso, tentando di plasmare il ricordo tra fogli e memoria. «È il suo autoritratto. Dentro ballano stati d'animo, delusioni, disperazioni, alterchi, incontri, dubbi ed entusiasmi.

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Ci sono quelle che lui chiamava "Le code dei discorsi" e c'è il dolore di una persona che cerca di trovare un centro di gravità tra emozioni e impressioni». Lo pubblicheranno presto, dopo avergli aperto le porte del Meridiano Mondadori, perché non c'è latitudine di Terzani che lasci i lettori indifferenti. «Tiziano si accorse del successo solo a sessant'anni. In treno. "Mi riconoscono", disse. "Mi imbarazza, non lo posso più prendere"».

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Nel diario è sviluppata un'epopea transcontinentale: «Abbiamo viaggiato insieme perché Tiziano era apolide, ma non aveva l'indole zingara. Metteva radici, in Mongolia come a Singapore. Io ero la sua àncora».

E poi, quasi specchiandosi: «Ma non sostengo di essere stata l'unica. La vita romantica del corrispondente che si ubriaca e passa di bordello in bordello, da una donna all'altra, non faceva per lui. Attraversava quei mondi da spettatore. Andava e veniva, era una meteora. Può anche darsi che una notte si sia perso tra le luci, ma io non me ne sono mai accorta. Tiziano conosceva il limite. Se indagavo, rideva: "Mi sono trattenuto"».

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Si incontrarono a Firenze nel '57. Si sposarono nel '62. Scapparono di casa. «Ai tempi in cui non si faceva, dando ragione a mio padre che mi chiedeva sempre: "Ma tra tutti, proprio lui dovevi scegliere?". Andammo a Leeds, in una periferia in bilico tra le atmosfere di Dickens e i film di Ken Loach. Eravamo denutriti e poveri. Mancavano i soldi per il carbone e compravamo carne di pecora. Ce la vendevano congelata, tagliandola con la sega elettrica. Non ci lamentavamo. Era la nostra avventura».

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Dopo Folco, nel '71 arrivò la figlia Saskia. Prima di loro, il colpo di fortuna. «L'Olivetti lo mandò nel '67 per un convegno alla John Hopkins University di Bologna. Tiziano fece un intervento durissimo, criticando l'intervento americano a Saigon. A fine conferenza, uno dei relatori gli si avvicinò: "Perché odia tanto l'America?"». E Terzani, assicura Angela, sibilò la risposta che gli cambiò la vita: «Forse perché non la conosco». L'uomo lo convinse a compilare la domanda per la Columbia University, Terzani si licenziò dall'azienda di Ivrea («Gli diedero del bambino capriccioso») e si catapultò tra università occupate, pantere nere e contestazioni.

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Poi tornato in Italia lasciò anche il contratto ottenuto con "Il Giorno" di Italo Pietra e prese definitivamente il volo. «Parlò con il direttore: "In redazione mi sento perso. Mi mandi a fare il corrispondente in Asia". Pietra dettò una replica memorabile: "Questo giornale non ha bisogno di corrispondenti. L'unico posto disponibile è a Brescia, dove lei scriverà con i piedi nel fango". Tiziano si dimise in un minuto.

Partimmo per Singapore e la nostra vita cambiò». "Der Spiegel", "L'Espresso", "Repubblica", "Corriere", i libri. Milioni di copie. Un continente e Terzani il rabdomante, con la penna al posto della bacchetta. «Voleva farsi notare ma cercava la mimesi. In Cambogia si vestiva di blu, in Africa indossava la sahariana. Dava un segnale. Il colonialista doveva distinguersi, lui preferiva confondersi».

Interpretò la professione idealizzandola fin che gli fu possibile. «Il modello erano inglesi e americani. Le inchieste del "New York Times" e del "Guardian", la notizia che ignora le pressioni del silenzio e si fa strada. Anche se nel dogma dell'obiettività della missione, non credette mai. Poi sentì declinare il giornalismo e intuì che, con il suo potere, crollava anche ogni ipotesi di controllo sul sistema». Allora iniziò a gridare più forte. Gli khmer rossi gli misero una pistola alla tempia, i cinesi lo cacciarono. Inseguì angoli incontaminati, emigrò in India, venne deluso dal Giappone: «Cercò a Tokyo qualcosa di definitivo al di là della tecnocrazia e non la trovò. Una delusione che fu benzina per il male».

Bernardo ValliBernardo Valli

Depresso o sollevato, Terzani tornava sempre a Orsigna. D'inverno e in primavera. Intorno al tavolo, dove adesso con i gomiti su una tovaglia rossa, il naso lungo, gli occhi stretti e l'orizzonte largo, il figlio Folco lo accende nella descrizione. «È stato un padre severo. Zero tv, zero vizi. Negli ultimi anni era incazzatissimo. Contro le menzogne e il conformismo, più che contro gli americani. Ascoltava i telegiornali e li parodiava, leggeva le dichiarazioni dei generali e ripeteva "mentono, mentono, mentono". Papà aveva svelato in anticipo certe derive della globalizzazione cogliendole in presa diretta. Dall'Italia, le dinamiche appaiono relative. La povertà di uno slum di Calcutta non la illumini da un quartiere di Firenze».

Terzani duellò con Oriana Fallaci sulle pagine del "Corriere della Sera". L'11 settembre abbattè anche un'antica amicizia. «Si conoscevano bene», ricorda Angela, «lei gli propose anche di scriversi lettere per farle confluire in un libro. Tiziano si stava affermando e gli uomini, a Oriana, non dispiacevano. Poi si persero di vista per ritrovarsi già anziani, su sponde opposte». Deposte le armi dialettiche, Terzani spedì il suo libro a Fallaci che lo rimandò indietro. «Tiziano si infuriò. "È stata davvero insolente, maleducata"».

Sul prato i figli di Folco giocano. Del nonno sanno poco. Si rotolano nell'erba bagnata, hanno piedi offesi dai rovi e ginocchia rosse. A Tiziano sarebbero piaciuti. Angela li segue con gli occhi e sembra la donna dipinta in "Un altro giro di giostra": «Senza essersi isolata in nessun Himalaya era di gran lunga più serena, equilibrata e in pace di me». Anche nel rimpianto. «Abbiamo avuto pochissimo tempo per aver tempo. Tiziano credeva di essersi ammalato perché, correndo da un lato all'altro del mondo, non aveva mai avuto la possibilità di riflettere a lungo. Quando non ce la fece più con la testa, iniziò a morire».

Prende fiato, ricomincia: «Viveva con urgenza, come sapesse che la corsa non sarebbe durata in eterno. Detestava le conversazioni vuote. Adorava Bernardo Valli. Partì correggendo le sue bozze al "Giorno" e finì per diventarne amico fraterno. All'ombra dei bowindow in Indocina parlavano per ore. Uno toscano e selvatico, l'altro impeccabile, spiritoso, con l'animo del giocatore d'azzardo e del legionario. Come Graham Greene, andavano al fronte in taxi. Tiziano sapeva impostare i problemi, ma ignorava come risolverli. Valli custodiva le risposte in silenzio».

Ad Angela manca una presenza: «Abbiamo riso insieme delle stesse cose, inventato scenari assurdi. Ho nostalgia del coraggio, dell'autonomia, della sua fantasia. Gli ultimi anni sono stati una continua revisione. Un limbo per capire cosa si è fatto e con chi. Quando vivi con una persona così, vivi sotto tutela per definizione. Non avevo desideri in tal senso e mi sono felicemente battuta, altrimenti non avrei potuto resistere. Nessuno aspira a un carnefice per marito e Tiziano non voleva una vittima come moglie. Sa cosa mi rispose quando gli chiesi cosa avrebbe fatto se avesse continuato a vivere? "Sarei partito ancora. E ti avrei portata con me"».

 

 

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