TUTTO PASSA – LE STAR PIANGONO LA CHIUSURA DI “INTERVIEW”, LA STORICA RIVISTA FONDATA DA ANDY WARHOL – IL PRIMO DIRETTORE BOB COLACELLO: “NON ERAVAMO GIORNALISTI, NON C’ERA UN PIANO EDITORIALE. CI OCCUPAVAMO DI QUELLO CHE CI PIACEVA E RACCONTAVAMO CHI CONOSCEVAMO. C’ERA MOLTA IRONIA, NON PRENDEVAMO NULLA TROPPO SUL SERIO” – “ANDY OGGI VORREBBE SICURAMENTE KIM KARDASHIAN IN COPERTINA, MA IO…”

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Paola Jacobbi e Simona Siri per "Vanity Fair"

 

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Un giorno passava dalla redazione Mick Jagger, un giorno Jodie Foster. Una sera, un redattore vide un ragazzo tutto vestito di viola cantare in un locale e il giorno dopo lo invitò a farsi intervistare e fotografare: il ragazzo si chiamava Prince. Un’altra sera, all’uscita dalla discoteca Studio 54, Andy Warhol disse a Warren Beatty: «vieni da noi uno di questi giorni, così ti facciamo un’intervista». E Warren arrivò.

 

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Poi ci fu la volta in cui, era di passaggio Jack Nicholson, di ottimo umore, più in forma che mai. Lo intervistarono, organizzarono un servizio fotografico. Un mese dopo era in copertina. L’ufficio stampa di Jack non ne sapeva nulla e protestò vivacemente con l’attore: «Ma sei fuori di testa? Rilasci un’intervista per una copertina quando non hai nemmeno un film in uscita? Non si fa».

 

No, non si fa, men che meno si potrebbe fare oggi, un tempo in cui le relazioni tra celebrities e media sono regolamentate da una sempre più bizzarra forma di burocrazia.

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A Interview si poteva. E si faceva. Ma Interview ha chiuso a fine maggio e mai l’espressione «fine di un’epoca» è stata più vera.

 

La rivista fondata da Andy Warhol nel 1969, un magazine che era una specie di opera d’arte prêt-à-porter, profondamente innamorata di quello che raccontava (le celebrità) e da queste ricambiata con sentimento, ha finito i suoi giorni. L’ultimo direttore (Fabien Baron) ha fatto causa all’editore, un mucchio di altra gente sta aspettando di essere pagata da mesi.

 

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Il «funerale» è avvenuto su Instagram: star del cinema e della musica, fotografi e top model, hanno espresso il loro dispiacere, come fosse mancata una persona. Bob Colacello, scrittore e giornalista (scrive per Vanity Fair America ed è autore di un gran libro sul mondo della Factory, Holy Terror), oggi settantenne, fu il primo direttore di Interview.

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Al telefono da New York, racconta i suoi esordi: «Ero uno studente della Columbia University e scrivevo delle recensioni di film sul Village Voice. Ne recensì anche uno diretto da Andy, gli piacque quello che scrissi e un giorno mi fece telefonare. In sei mesi divenni direttore della rivista e ci rimasi per una dozzina d’anni.

 

Inizialmente Interview era stata pensata per promuovere l’attività della Factory di Andy. Non eravamo giornalisti, non c’era un piano editoriale. Era un modo per documentare quello che succedeva intorno a Andy. Ci occupavamo di quello che ci piaceva, raccontavamo chi conoscevamo. Era tutto molto sperimentale, senza regole. Pubblicavamo il menu del pranzo con il personaggio intervistato, c’era molta ironia, non prendevamo nulla troppo sul serio.

 

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L’idea di Andy era mescolare chiunque facesse qualcosa di interessante nel mondo della moda, dell’arte, del cinema, della politica. Il mix del giornale, quel mix che poi il Vanity Fair di Tina Brown ha rilanciato con grande abilità, nasce con Andy. L’ambasciatore cinese e, una pagina dopo, la modella Pat Cleveland, David Bowie e poi il pittore Balthus. Era come organizzare un party con la gente più interessante di New York e del mondo, mettendo il lettore nella condizione della proverbiale mosca sul muro che ascolta le loro conversazioni».

 

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Dopo Colacello, dal 1989 al 2008, Interview venne diretto da un’altra giornalista, Ingrid Sischy (scomparsa nel 2015), che veniva dal mondo dell’arte e che diede ulteriore impulso al giornale. L’editore era il ricco industriale e collezionista d’arte Peter M. Brant: a un certo punto la moglie Sandra, che lavorava con lui, lo lasciò per mettersi con Ingrid, con cui poi si è sposata e a cui è stata accanto fino alla morte. Negli ultimi anni, Ingrid e Sandy hanno seguito le edizioni internazionali di Vanity Fair, compresa la nostra, come International Editors.

 

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«Quando Ingrid dirigeva Interview, ho fatto dei servizi fantastici» ricorda la fotografa Roxanne Lowit. «Scattavo di notte, alle feste dove c’erano persone di ogni tipo. Giovani artisti si mescolavano alle signore dell’alta società, gli attori agli scrittori e ai musicisti, alla gente della moda. Avevo incontrato Andy Warhol nel ’78, in cima alla Tour Eiffel, a Parigi, durante una festa dopo la sfilata di Yves Saint Laurent. Me lo presentò Pat Cleveland. Io, per la prima volta, avevo fotografato il backstage di Yves e, in mezzo a questo mondo, in cima alla Tour Eiffel, mi dissi “questa è la vita”».

 

ingrid sischy e david bowie ingrid sischy e david bowie

Il desiderio di creare le mode anziché seguirle («cercavamo il glamour e cercavamo i trendsetter, quelli che oggi si chiamano influencer, ma sono tutt’altra cosa», spiega Colacello), i rapporti amichevoli ma mai servili nei confronti delle celebrità, questi erano due dei segreti del successo di Interview.

 

L’altro, soprattutto nella fase iniziale, e fino al 1987, fino a quando il fondatore è stato vivo, era la capacità straordinaria di promozione di Andy.  Era spiritoso, provocatorio, «quasi infantile per certi versi», racconta Colacello. Nelle interviste, riusciva sempre a porre, in mille modi diversi, la stessa domanda: «Come va la tua vita sessuale?», e nessuno si sconvolgeva, Andy poteva tutto. Ogni mattina, camminava per New York da casa all’ufficio con un bel po’ di copie del giornale: la gente lo fermava, lui diceva «vuoi Interview?» e, dopo aver firmato la copertina, lo regalava. Una specie di promozione porta a porta.

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Il giornale, inizialmente, si finanziò con la vendita delle opere di Andy, soprattutto quelle su commissione. Negli anni Ottanta, nel momento del boom della moda, gli stilisti cominciarono a pagare i loro ritratti fatti da Andy in pagine di pubblicità su Interview e gli affari andarono a gonfie vele.

 

Oggi la sua creatura di carta non c’è più (anche se gli ultimi rumors non escludono nuovi investitori e una rinascita a breve), ma intanto, la frase più famosa di Warhol, «in futuro tutti avranno il loro quarto d’ora di pubblicità»?, si è rivelata una delle profezie più a fuoco mai pronunciate.

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Che cosa penserebbe oggi, Andy, di Kim Kardashian? Colacello non ha dubbi: «Vorrebbe metterla in copertina, io gli risponderei manco morto! Litigheremmo e, alla fine, l’avrebbe vinta lui».

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