Caro Dago,
a proposito della distanza che corre tra i propositi i più virtuosi di ciascuno di noi e la realtà effettuale, sono qui a peccare contro l’undicesimo comandamento che mi sono dato in quest’ultima parte della mia vita. Quella di non pronunciare mai più il nome di Massimo Fini. Il nome di uno che pure ho costeggiato più volte, e non banalmente, nel mio cammino professionale e intellettuale.
Solo che “il Fatto” di domenica 21 dicembre ha pubblicato una (bella) intervista a Fini di Silvia Truzzi e tu l’hai subito ripresa mettendo in risalto quanto Fini rievocava dell’esperienza di “Pagina”, un mensile liberal della metà degli anni Ottanta al quale io attribuisco il merito di avere dato vita al filone “né di qua né di là”, al filone di quanti non facevano il tifo per nessun delle due Armate Brancaleone che hanno scandito la storia (sciagurata) della Seconda Repubblica, quelli che cinque volte al giorno si genuflettevano a invocare il “Meno male che Berlusconi c’è” e quegli altri che cinque volte al giorno invocavano che venisse appiccato per i piedi nel fatidico piazzale milanese.
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA PAOLO MIELI
Nella versione della Truzzi, Fini racconta così: “Faccio ‘Pagina’ con Aldo Canale, un vero genio. Abbiamo fatto scrivere per la prima volta Giuliano Ferrara […] Ernesto Galli della Loggia e Pigi Battista che era il nostro ragazzo di bottega. Bravissimo, oggi totalmente guastato nel fare il mestiere. C’era anche uno sconosciuto Paolo Mieli”.
Giudizio su Canale a parte (giudizio che condivido al 100 per cento), difficile racchiudere tante puttanate in così poche righe. Ne parlo da una distanza astrale, come se abitassi in un bivano di un quartiere residenziale della luna, perché con nessuno di quelli con cui abbiamo fatto “Pagina” ho più un rapporto né di amicizia né di inimicizia.
A differenza di Fini, che ci mette tutta la volgarità intellettuale di cui è capace quando parla di Galli della Loggia o di Mieli, che ai suoi occhi hanno il difetto micidiale di essere “riusciti” lì dove volevano riuscire. E laddove Fini erutta tutto il veleno che gli scorre nelle vene per essere restato ai margini della professione, cosa in realtà dovuta al suo spirito libero e indipendente. Ciò che io mille volte gli ho riconosciuto.
E difatti un paio d’anni fa mi aveva mandato un suo libro con delle righe che mi facevano premura a occuparmene, salvo poi scrivere qualche giorno dopo un articolo di insulti nei miei confronti che a tutt’oggi non perdono al “Fatto” di avere pubblicato. E anche se alcune delle espressioni più colorite i redattori del quotidiano romano le trassero via, e difatti Fini di quell’articolo ne pubblicò la versione integrale su un suo blog, convinto che l’umanità non dovesse perdersi nulla del suo sterco. Il mio decimo comandamento mi impone di non replicare agli insulti, semmai di aspettarne l’autore sotto casa. Fini abita a Milano, troppo lontano.
Le cose di “Pagina”, e a parte il ruolo del Canale che l’ha inventata, sono andate diversamente. C’è stata una prima stagione di “Pagina” che aveva a direttore Canale qui a Roma, un Canale che comunicava quotidianamente con Fini. A un certo punto Aldo pensò di fare una rivista più solida, editorialmente più continuativa, con una redazione romana meglio organizzata.
Mi chiamò e ne parlammo, e lui mi chiese il nome di uno che potesse fare il direttore a pieno tempo. Proposi Galli della Loggia e insistetti perché della redazione facesse parte il già notissimo Mieli, che alcuni anni prima Lamberto Sechi (mi alzo in piedi mentre ne pronuncio il nome) avrebbe voluto come direttore del settimanale “l’Europeo”.
L’ho detto, sarebbe stato un mensile a impronta fortemente liberal, perché tali eravamo i tre o quattro che la facevamo (Pigi era ai suoi debutti, già bravissimo, oggi lo è ancora di più). In tutto e per tutto quel mensile durò dieci o undici numeri, arrivò a vendere sì e no 4-5000 copie, un gruppo di industriali ci rimise un paio di centinaia di milioni, e ciascuno di noi pagò l’Iva su un gruzzolo di fatture non saldate (io ci rimisi una decina di milioni di allora).
E comunque quei dieci-undici numeri stanno lì e ciascuno potrà verificare, se vuole, chi ne scriveva i pezzi migliori. Te lo ricordi, vero Fini?
Le cose cambiano e nessuno ricorda più quel giornale e i suoi non irrilevanti meriti. Io lo faccio ogni volta che posso. Anche questa volta, a costo di scocciare i lettori del Dagospia che pure hanno ben altro da mettere sotto i denti.
GIAMPIERO MUGHINI