ARRESTATO IERI DOPO 6 ANNI DI LATITANZA, IL BOSS DELLA ‘NDRANGHETA MARCELLO PESCE HA AVUTO UN’UNICA PREOCCUPAZIONE: PORTARE CON SÉ “L’ETÀ DELLA RAGIONE” DI JEAN PAUL SARTRE - COLTISSIMO E NARCISO, ERA CONSIDERATO IL COLLEGAMENTO TRA I CLAN, LA MASSONERIA E LA POLITICA - INCELLOFANAVA I LIBRI PER PAURA SI ROVINASSERO E SI ERA SOTTOPOSTO A UN TRAPIANTO DI CAPELLI

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MARCELLO PESCE MARCELLO PESCE

Alessia Candito per “la Repubblica”

 

«Questo lo posso portare con me?». Manette ai polsi, pronto per il trasferimento in Questura, il boss Marcello Pesce, 51 anni, arrestato ieri dopo 6 anni di latitanza, ha avuto un’unica preoccupazione: portare con sé “L’età della ragione” di Jean Paul Sarte. Una delle tante letture impegnate che il capo strategico e operativo del potentissimo clan Pesce di Rosarno teneva nel suo covo, individuato dalla Squadra mobile di Reggio Calabria e dallo Sco. Sartre, Garcia Marquez, Bolaño, Tolstoj, l’intera “Recherche” di Marcel Proust. Al boss piacciono i classici.

 

MARCELLO PESCE MARCELLO PESCE

E i suoi testi li curava persino incellofanando quelli che temeva si rovinassero. Testa fina e modi garbati, Marcello Pesce. Grazie a lui — spiega il procuratore capo della Dda Federico Cafiero de Raho — il clan ha fatto breccia fra professionisti, politici e notabilato della zona. Lo aveva intuito negli anni Novanta anche Agostino Cordova, pm-mastino di Palmi, che lo aveva individuato come anello di collegamento fra i Pesce, la massoneria e la politica. Poi quell’inchiesta si è persa, fra mille rivoli e tante assoluzioni, il boss invece no.

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Uscito pulito da quei guai giudiziari, ha continuato la sua carriera criminale. A lui, il suo clan ha sempre delegato gli affari più delicati. Per il pentito Pasquale Nucera, era lui il delegato della famiglia alla riunione organizzata «tra l’agosto e il settembre 1991» al santuario di Polsi, per discutere del «nuovo “partito degli uomini” che doveva sostituire la Dc che non garantiva gli appoggi e le protezioni del passato».

 

Parole testuali del collaboratore, finite agli atti di inchieste calabresi e palermitane. E — dice chi per anni ha braccato Pesce — perfettamente in linea con il personaggio. Studi universitari, tante letture e molti viaggi, una lingua straniera — il francese — parlata in modo pressoché perfetto, il boss è un uomo di mondo. E in lungo e in largo per il mondo si è mosso per curare gli affari del clan.

 

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Sebbene non abbia incassato condanne specifiche, per gli inquirenti è lui che ha fatto transitare dal Sud America all’Europa quintali di cocaina, così come a lui si devono gli affari in Francia e la colonizzazione imprenditoriale di Milano e della Lombardia, infettate con soldi e imprese sporche. Sotto la Madonnina, il boss è stato per anni di casa, così come nei locali migliori della città.

 

Amante di discoteche e lounge- bar alla moda, Pesce era un volto noto della movida milanese. Una passione che gli è costata il soprannome “u Ballerinu”, ma che nessuno ha mai osato rinfacciargli. Come nessuno si è mai permesso di mettere in discussione l’attenzione quasi maniacale per l’aspetto fisico, che lo ha indotto a correggere l’incipiente calvizie con un aiutino chirurgico. Poi anche quei capelli sono in parte caduti, come l’intera direzione strategica del clan nel corso delle operazioni di polizia.

 

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E come tutti i capi, Marcello Pesce è tornato da latitante a Rosarno, nel suo feudo. Protetto da quella rete di consenso coltivato persino finanziando le squadre di calcio della zona, il boss non ha sentito neanche la necessità di nascondersi in un bunker o nelle campagne. «La sua cattura — ha detto il procuratore aggiunto Gaetano Paci — segna la fine dell’impunità, uno di quei valori a-materiali che qui vale quanto una tonnellata di cocaina o di armi».

 

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