1 - IL MALUMORE DELLA BENEMERITA
Al Comando Generale dei Carabinieri l'articolo di Panorama (che riproponiamo qui di seguito: "La rabbia del numero Ultimo") ha creato parecchi malumori e incazzature verso il giornalista Fedocci e il direttore Mulè.
Fino a spingere l'Arma a censurare l'articolo dalla rassegna stampa. Il "capitano" sarebbe stato anche convocato per cercare di aggiustare le cose. E i sindacalisti del Cocer dell'Arma promettono battaglia sul suo caso e su quello di Garofano.
Per il colonnello dei Ris - osservano - è vero che il regolamento dell'Arma prevede il trasferimento per chi si candida alle elezioni e viene trombato, ma è anche vero che quasi mai si applica questa regola, tantomeno per uno come lui che ha un ruolo tecnico e non operativo. Insomma è una questione discrezionale.
E aggiungono: per Garofano è stato deciso di applicarla perché al comando dei Ris di Parma era diventato troppo ingombrante mediaticamente. Per cui quando ha presentato domanda di congedo non se lo sono fatti chiedere due volte.
Nel caso di Ultimo (che potrebbe avere presto una nuova scorta, l'Arma sta facendo pressioni sul comitato del ministero che decide queste cose) e nel caso di Garofano la partita è aperta.
falcone borsellino2 - SERGIO DE CAPRIO: LA RABBIA DEL NUMERO ULTIMO
Enrico Fedocci per Panorama
È bastato che si riparlasse delle stragi di mafia, che ritornassero alla mente le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per far scattare Capitano Ultimo. Si è ribellato a chi (con le rivelazioni di Massimo Ciancimino) metteva in dubbio le sentenze e il lavoro di uomini che hanno sacrificato la loro vita per combattere boss e ha detto: «Le ultime dichiarazioni di Ciancimino sull'arresto di Riina sono l'ennesima aggressione di stampo mafioso. Ma la cosa più grave è che ci sia qualcuno all'interno delle istituzioni che legittima questo servo di Riina. Significa che i servi di Riina sono anche all'interno delle istituzioni».
È così Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo: lui non le manda a dire. Lo sanno bene milioni di italiani, perché lo hanno conosciuto con il volto di Raoul Bova in una fiction di successo.
Sul presunto accordo tra Bernardo Provenzano e lo Stato per la cattura del Capo dei Capi, evocato dal figlio di Vito Ciancimino, il colonnello dei carabinieri ha detto la sua, malgrado i suoi superiori l'abbiano "imbavagliato" anche davanti alla diffamazione.
De Caprio è un ribelle, uno che non piega la testa davanti al sopruso, alla costrizione, a ciò che non capisce. È uno che chiede «Perché?». Lo ha sempre fatto, anche da allievo in accademia militare o da giovane tenente in servizio in Sicilia: rispetta solo chi stima, obbedisce solo a chi crede giusto.
Rispettava Falcone e Borsellino e ne ha onorato la memoria combattendo la mafia. Sono stati i risultati investigativi a salvarlo dalle conseguenze di questo essere controcorrente: sua la Duomo connection, l'operazione che nel 1989 ha svelato le collusioni tra politica e mafia corleonese in Lombardia; suoi gli arresti di numerosi latitanti. Fino alla cattura di Totò Riina, a Palermo.
Ma neppure i complimenti e le "celebrazioni" addomesticano De Caprio:
la sua filosofia di vita spazia da Che Guevara a Carlo Alberto Dalla Chiesa, passando per gli Indiani d'America. Per tutti è un eroe buono, ma la Benemerita stenta a sopportare i suoi modi.
È un militare e davanti ai superiori si mette sull'attenti, ma il suo sguardo tradisce ciò che pensa: «Paperoni», «Giacche blu» sono alcuni degli epiteti con cui bolla quegli ufficiali che vogliono fare carriera a tutti i costi, attenti a graduatorie e a corsi che regalano punteggio. Ha scelto un nome in codice che sottolinea la distanza dai suoi capi: «Se loro vogliono essere i primi, io, allora, sono l'ultimo. Il potere non è un privilegio e il comando degli uomini è esempio. Al di fuori di questa linea io mi ribello».
Provenzano MafiaRibelle, ribelle, ostinatamente ribelle. Nella forma e nel pensiero: non indossa la cravatta, solo una sciarpa indiana e i capelli sono a mo' di codino. Troppo, troppo per una istituzione legata alle tradizioni.
Nel 1997 il reparto da lui fondato viene soppresso. Lui scrive parole di fuoco che finiscono sui giornali. Il dito è puntato contro i vertici dell'Arma e dice: «L'egemonismo burokratico celebra se stesso e il suo potere di sovrastruttura fine a se stessa. È l'ora di ripiegare soggettivamente su posizioni alternative. Uscendo dai percorsi di lotta alla criminalità mafiosa sento il dovere di ringraziare quegli uomini valorori con cui ho avuto il privilegio di vivere combattendo».
Ultimo viene punito, le sue note caratteristiche abbassate, e questo gli costa parecchio: nell'avanzamento a colonnello viene promosso in prima valutazione, ma è l'ultimo della lista. In poche parole l'erede di Dalla Chiesa non diventerà mai generale. È il momento più buio. Finisce processato, sfida il pm Antonio Ingroia che lo accusa. E vince. Nel 2007 viene assolto. A luglio scorso gli viene anche revocata la scorta, nonostante le dichiarazioni dei pentiti che parlano di pericolo per la sua vita. Lui fa spallucce e per non diventare un facile bersaglio, compra un motorino e si sposta con quello. È fatto così De Caprio. Per nulla Ultimo.