DAGO CONTRO L'"EROINA" DELLE BRIGATE ROSSE - POSSIAMO DIRE CHE NON CE NE FREGA UN CAZZO DEL SUICIDIO DI UNA ASSASSINA? - UNA CHE HA AVUTO LA VIGLIACCHERIA DI SCRIVERE: "A mia sorella ho urlato che, fosse stato per me, Biagi lo avrei torturato prima di giustiziarlo, ed è proprio così, per quello che ha fatto al proletariato" - AI "COMMOSSI" DAL SUICIDIO AMMAZZASSERO IL PADRE...

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1- DIANA BLEFARI, UNA DONNA MALATA CHE NON PUÒ DIVENTARE EROINA...
Roberto Gressi per "il Corriere della Sera"

BLEFARIBLEFARI

Marco Biagi, 52 anni, aveva perso il treno, quella sera. Aveva telefonato: a casa sua moglie e i suoi due figli lo aspettavano per cenare tutti insieme, la tavola era apparecchiata. Giunto alla stazione di Bologna aveva aperto il lucchetto della sua bicicletta e si era messo a pedalare: quattrocento metri alla luce della dinamo alimentata dal girare della ruota.

Dietro di lui pedalava una giovane donna, 36 anni, Diana Blefari Melazzi. Non era la prima volta che lo seguiva, ma sarebbe stata l'ulti­ma. Era il 19 marzo del 2002 quando il professor Biagi fu ucciso sotto casa dalle Brigate Rosse. Come Walter Tobagi, come Ezio Tarantelli, come Massimo D'Antona e tanti altri.

Marco BiagiMarco Biagi

Diana Blefari si è uccisa la sera di sabato, si è impiccata dopo aver fatto a strisce e legato le lenzuola, con nodi così stretti che sono stati difficili da sciogliere. Era sola, nella sua cella. Isolamento. Erano anni che non stava bene, aveva cominciato a rifiutare le visite, poi il cibo, poi i farmaci. E si sdraiava sopra la sua branda con la coperta tirata fin sopra la testa: all'inizio per qualche ora, poi per settimane.

Diana Blefari aveva saputo pochi gior­ni fa dalla Cassazione che la sua con­danna all'ergastolo era definitiva. Una condanna per omicidio, rivendicato dal carcere con ferocia: «A mia sorella ho urlato che, fosse stato per me, Biagi lo avrei torturato prima di giustiziarlo, ed è proprio così, per quello che ha fatto al proletariato», aveva scritto in una lettera ad un complice di quell'agguato.

Aveva sprecato così la sua «seconda volta». La seconda occasione di un confronto tra la vittima e il suo carnefice. Per la sua morte ci sono proteste e polemiche. E su Facebook c'è anche chi in­neggia all'omicidio Biagi nel nome della compagna Diana. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano dice che la detenzione era compatibile con le sue condizioni psicofisiche. Noi non ne siamo certi: c'è un'inchiesta, dovrà essere fatta seriamente. Ma qualunque sarà la conclusione non farà di Diana Blefari Melazzi un'eroina.

2 - SI IMPICCA LA BR DEI MISTERI...
Giovanni Bianconi per "il Corriere della Sera"

«Ho detto al direttore del carcere che voglio parlare con i magistrati», aveva scritto in settembre al suo ex fidanzato, Massimo Papini, col quale era rimasta in contatto. Ma qualche giorno dopo, il 1˚ ottobre, Papini fu arrestato con l'accusa di aver fatto parte delle nuove Brigate rosse.

E quando s'è trovata davanti il pubblico ministero che aveva chiesto e ottenuto la cattura del ragazzo proprio per il tipo di rapporti semiclandestini che avevano continuato a intrattenere con lei, Diana Blefari Melazzi s'è limitata a dire che Papini non c'entrava col terrorismo e il gruppo che uccise Massimo D'Antona e Marco Biagi. Ha provato a scagionarlo, e per il resto è ripiombata nel silenzio che aveva contraddistinto fin lì i suoi sei anni di detenzione.

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere », ha dettato a verbale, e s'è fatta riportare in cella. Ma da quanto trapela, adesso, dopo che è morta suicida, nei giorni seguenti ha accettato di parlare con qualche investigatore, e forse aveva cominciato a scrivere qualcosa sul suo passato di brigatista. Troppo poco per far dire a polizia e magistrati che era l'inizio di una collaborazione.

Anche se di segreti e misteri ancora aperti sull'ultima banda armata che ha insanguinato l'Italia Diana Blefari ne doveva conoscere. A cominciare, probabilmente, dal luogo dove sono nascoste la pistola che ha sparato a D'Antona e Biagi e il resto del pur modesto arsenale brigatista, mai ritrovato; fu lei ad affittare l'ultimo rifugio romano dell'archivio del gruppo scoperto alla vigilia del Natale 2003, e di lì a qualche ora la ammanettarono in un residence sul litorale laziale dove s'era nascosta con dei documenti falsi e qualche migliaio di euro.

L'altro giorno ha ricevuto la notifica della condanna definitiva all'ergastolo per l'omicidio Biagi che - insieme all'arresto di Papini, al quale continuava a volere bene - deve aver dato un altro colpo all'equilibrio sempre instabile col quale ha vissuto la galera: insopportabile quando le avevano imposto i rigori del «41 bis» (quello per i boss mafiosi, esteso anche ai terroristi) ma pure dopo, quando era approdata a un regime penitenziario che la burocrazia delle prigioni definisce «aperto».

I suoi avvocati non hanno mai smesso di chiedere che venisse curata in altri contesti, ma tutte le perizie d'ufficio hanno stabilito che poteva rimanere in cella: i suoi disturbi mentali non le impedivano di essere processabile e quindi detenuta. Pure nel processo bolognese per l'omicidio Biagi terminato con la condanna a vita.

A differenza degli altri «irriducibili», Diana Blefari Melazzi s'era difesa nel dibattimento per quel delitto, anche se stava nella stessa loro gabbia e aveva gli stessi atteggiamenti nei confronti dei giudici. Però i suoi compagni di militanza non apprezzarono la scelta di non revocare gli avvocati, e l'hanno considerata una «diversa». Anche dal punto di vista della salute, come dimostra il carteggio dell'estate 2005 tra lei e Nadia Desdemona Lioce, considerata il capo delle nuove Br.

«La tua condotta è stata fin dall'inizio politicamente illegittima e lo sai - scriveva la Lioce alla Blefari all'indomani della sentenza di primo grado -. E se hai avuto il beneficio della critica (...) è in virtù del senso di responsabilità che abbiamo verso chi è sguarnito di sufficienti strumenti politici, e dello stato fisicamente e mentalmente debilitato e poco equilibrato in cui ti abbiamo trovato ».

Un atto d'accusa al quale «l'imputata » rispose a stretto giro: «Il 'beneficio della critica' te lo puoi tenere! Sono io che che rivendico il mio diritto di veto e di critica». E ancora: «Sono da anni e ancora oggi una militante rivoluzionaria associata all'O. (l'organizzazione, ndr ), che si è guadagnata un ergastolo non certo per soddisfare propri 'bisogni' individuali, ma per dare un contributo rivoluzionario partecipando all'azione Biagi, agli espropri e al complesso dell'attività dell'O., con un elevato livello di internità e responsabilizzazione».

Una rivendicazione quasi orgogliosa, mentre gli avvocati si affannavano a sostenere che il processo per omicidio era soltanto indiziario, e troppo debole per una condanna. Persero allora e hanno continuato a perdere in seguito nelle battaglie per sostenere l'infermità mentale della donna, magari solo parziale. «Ma purtroppo quello che è successo dimostra che avevamo ragione», commentano ora con amarezza.

Perché loro hanno sempre avuto sotto gli occhi gli alti e bassi di un atteggiamento non equilibrato, sia quando Diana Blefari denunciava complotti nei propri confronti che quando rifiutava ogni forma di contatto con l'esterno. Massimo Papini, l'ex fidanzato, era andato a trovarla più volte nell'ultimo anno, e il direttore del carcere aveva concesso questi colloqui proprio in considerazione della debolezza psichica della brigatista; ormai ex, visto il distacco dai compagni di militanza e il nuovo atteggiamento che forse intendeva assumere nei confronti di investigatori e inquirenti.

I quali ancora inseguono, oltre alle armi mai trovate, qualche brigatista rimasto sconosciuto, compreso uno che dovrebbe aver preso parte all'assassinio di Marco Biagi. Sono quei nomi che poliziotti e magistrati avrebbero voluto sentirsi dire in un'eventuale collaborazione che - se era davvero nelle intenzioni della Blefari - non ha avuto il tempo maturare e realizzarsi.

Gli squilibri di cui soffriva la donna che custodiva gli ultimi segreti delle nuove Br l'avevano spinta a un violento diverbio con una guardia penitenziaria, nel maggio 2008, che le costò l'accusa di lesioni aggravate e resistenza a pubblico ufficiale: il processo sarebbe dovuto cominciare il prossimo 23 novembre, e la perizia psichiatrica legata al nuovo procedimento giudiziario era ancora in corso. Ormai non serve più, come la lista della spesa per il giorno successivo trovata nella cella dove Diana Blefari s'è impiccata, accanto alla notifica della condanna all'ergastolo.

 

 

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