Giovanna Casadio per “la Repubblica”
In trecento escono dall’aula di Montecitorio. Il Jobs Act passa senza di loro, senza cioè il fronte delle opposizioni che va dalla Lega a Sel, al M5Stelle. Ma soprattutto senza un pezzo della sinistra Dem. Sono 316 i sì alla riforma del mercato del lavoro che Renzi considera una pietra miliare della politica del governo.
Si abolisce l’articolo 18 e nel Pd esplode il caos. Il partito è frantumato. La minoranza interna si spacca. In 29 firmano un documento in cui lanciano la sfida al premier. Insieme a Cuperlo, Fassina, Boccia, Bindi, Zoggia, D’Attorre, ci sono anche Michela Marzano, Carlo Galli, Roberta Agostini. In tutto gli assenti dem al momento dell’approvazione sono 40, mentre Pippo Civati e Luca Pastorino votano contro e altri due si astengono. Anche se il dissenso “organizzato” si ferma a 33 parlamentari.
VIGNETTA VINCINO DAL FOGLIO RENZI BERSANI ABUSI SUI MINORI
Renzi incassa la vittoria, però si sfoga: «I nostri che sono usciti si sono messi insieme a Brunetta e ai grillini, si ritrovano con loro». Marca, il premier, la differenza tra i dissidenti e chi, come gli ex segretari del Pd Bersani e Epifani, hanno votato a favore, nonostante i dubbi. «Ho fatto un accordo serio - spiega - con Bersani, Epifani, Speranza, Orfini e al di là di tutto, abbiamo dimostrato di avere la maggioranza assoluta. E l’abbiamo fatto senza voto di fiducia, così tutti si sono potuti dichiarare. E se i grillini sono usciti dall’aula è perché Grillo sapeva che qualcuno di loro avrebbe potuto votare con noi».
Il Pd è un puzzle di posizioni contrastanti. Nella stessa sinistra dem la tensione vede contrapposti i “trattativisti” e i dissidenti. Tanto che a sera arriva un “contro documento” a difesa del Jobs Act di Area riformista, la corrente che ha in Roberto Speranza e nel ministro Maurizio Martina i suoi leader. È un pesante atto d’accusa ai dissidenti giudicati privi di senso di responsabilità: «Senza di noi saltava il numero legale e il governo».
Speranza e Cesare Damiano dicono che c’è «un problema politico » e in direzione bisognerà parlarne. Rischiano espulsioni? È lo stesso Renzi a sgombrare il campo: «Niente provvedimenti. Certo, ci sarà il tema della disciplina di partito in vista della lista unica dell’Italicum, ma non sono previste sanzioni».
Ritiene, in pratica, i dissidenti isolati. E il premier elenca le ragioni di soddisfazione: «Abbiamo tolto l’articolo 18, e volete che non ci siano dei dissidenti? Ci dicevano che i dissidenti sarebbero stati 80 e invece sono 30. Ci dicevano che saremmo stati attaccati al voto di Forza Italia, invece ce l’abbiamo fatta da soli. FI ha adottato l’atteggiamento più cattivo, perché ha provato a far mancare il numero legale con i grillini e Brunetta è rimasto fuori dall’aula insieme a Sel».
La sinistra dem non arretra. Il Jobs Act passa ora al Senato e lì la battaglia riprende con più rischi per il governo, visti i numeri risicati. Cuperlo rivendica le contestazioni di merito: «Paura di andare contro lo Statuto del Pd? Confidiamo nelle nuove regole sul licenziamento disciplinare...», ironizza.
cena di finanziamento del pd a roma matteo orfini
I dissidenti organizzano una conferenza stampa volante subito dopo il voto a Montecitorio. Sottolineano di essere «un ponte, un gancio con tutto quel mondo che rischia di non andare a votare». L’astensionismo record alle regionali di domenica in Emilia Romagna e le proteste dei lavoratori in vista dello sciopero generale di Cgil e Uil del 12 dicembre, sono ben presenti alla si- nistra dem.
Ma quanta sinistra è rimasta nel Pd? È la domanda che i dissidenti rilanciano proprio a partire dalla riforma del lavoro. Una sinistra che Massimo D’Alema avverte essere indispensabile se il Pd vuole vivere: «Parte del nostro elettorato è disaffezionato e questo dimostra che l’illusione di buttare via l’elettorato di sinistra per conquistare quello di centrodestra è sbagliata».
L’ex premier al Tg2 torna a contestare Renzi e il governo: «Il calo dell’affluenza alle urne è un problema politico, non identitario, perché non molto tempo fa avremmo avuto un risultato straordinario che nasceva dalle molte speranze di cambiamento. Ma queste, in parte, cominciano a essere deluse». Rimprovera al premier «il disprezzo e l’insulto nei confronti del sindacato».
Più dura la reazione di Stefano Fassina, l’ex viceministro del governo Letta che si dimise dopo la battuta di Renzi “Fassina, chi?”: «Renzi delegittimando i rappresentanti dei lavoratori alimenta tensioni sovversive e corporative». Boccia, il lettiano presidente della commissione Bilancio, giudica la riforma del mercato del lavoro «un gran pasticcio» e resta al merito. Enrico Letta è assente. Su Pippo Civati gli strali del partito per quel “no” che sembra l’anticamera dell’addio al Pd. Ma Civati spiega: «Nel momento in cui i lavoratori non si sentono rappresentati bisogna avere la chiarezza di votare contro in aula».