CHE NOSTALGIA PER LA POP ART MADE IN UK! – LA RISCOPERTA DI PAULINE BOTY, SFORTUNATA PITTRICE CHE SI FECE NOTARE NELLA "SWINGING LONDON", PER POI MORIRE GIOVANISSIMA – ANTONIO RIELLO: “CONIA UNA FRASE CHE DIVENTERÀ QUASI EPICA: ‘NOSTALGIA FOR NOW’. LA SENSAZIONE NETTA CHE QUEGLI ANNI ERANO ECCEZIONALI E NON SAREBBERO MAI PIÙ TORNATI. ANCHE I SUOI DIPINTI CELEBRANO - E NON È POCO - LA POTENZA DEL PRESENTE”

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Antonio Riello per Dagospia

 

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Per Natale un amico mi ha regalato un libro scritto dallo storico d'Arte Marc Kristal. L'ho letto tutto d'un fiato. Racconta una storia molto particolare (zeppa di souvenir da un altro mondo) e si intitola "Pauline Boty: British Pop Art's Sole Sister".

 

La Pop Art che ha contraddistinto il panorama artistico all'inizio degli anni 60 del Secolo scorso non è nata negli USA (come spesso si immagina) ma nella vecchia Inghilterra, nell'area di Pimlico, a Londra. Artisti come Richard Hamilton, Peter Blake, Allen Jones, Derek Boshier, l'hanno tenuta a battesimo poco prima che diventasse un fenomeno americano.

 

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Gli inglesi, tra l'altro, sapevano giocare con le icone della Cultura Popolare in un modo più raffinato e trasversale rispetto ai colleghi di New York. Nel gruppo c'era anche una giovanissima signora. Si chiamava Pauline Boty. Un nome che molti hanno dimenticato, almeno fino al 2016 quando il romanzo "Autumn" di Ali Smith ne riportò indirettamente la memoria al grande pubblico (la protagonista del romanzo, Elisabeth, aveva scritto una tesi di laurea proprio su di lei).

 

Pauline nasce nel 1938 nel Surrey da una famiglia borghesissima e cattolica. Nel 1954 viene ammessa - contro la volontà del padre - alla Wimbledon School of Art di Londra dove iniziano a chiamarla la "Bardot di Wimbledon". E' una ragazza bellissima e assomiglia in modo impressionante all'iconica Brigitte Bardot.

 

Ha una vitalità che - anche nella esuberante "Swinging London" del tempo - si fa subito notare. Passa al Royal College dove si specializza nella tecnica delle vetrate colorate (dirà in un intervista che non le interessava granché il vetro, ma era il corso meno frequentato e di conseguenza quello dove era più facile essere ammessi).

 

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La nostra eroina è genuinamente sexy e veste alla "Beatnik" con i mini-abiti di Mary Quant. Inizia ad ascoltare un gruppo musicale fatto da quattro giovanotti - un po' imbranati - di Liverpool. George Harrison le fa un autografo e scrive - sbagliando - "a Booty" anzichè "a Boty" ("booty" significa refurtiva/bottino, ma anche culetto).

 

Dipinge con talento ed è curiosa. Dà vita ad uno stile tutto suo: un figurativo innocente, coloratissimo e affatto banale. Espone (con personaggi del calibro di Bridget Riley) alla mostra "Young Contemporaries" nel 1957. Diventa insomma una firma di un certo spessore nella scena dell'avanguardia artistica londinese.

 

Pauline conia una frase che diventerà quasi epica: "Nostalgia for Now". La sensazione netta che quegli anni erano eccezionali e non sarebbero mai più tornati. Anche i suoi dipinti celebrano - e non è poco - la potenza del presente. Sembra quasi di sentir risuonare, cinque secoli dopo, i celebri versi di Lorenzo il Magnifico. Una nota italiana: tra le sue opere ce ne era una dedicata a Monica Vitti.

 

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Nel frattempo parla regolarmente ad una trasmissione della radio (BBC) dove critica il conservatorismo delle donne britanniche (le "sciure" della situazione). Partecipa nel 1966, con una particina, al film Alfie, con Michael Caine. Recita in un documentario diretto da un giovane Ken Russell. Per campare lavora anche come cameriera in un ristorante, all'epoca di grande tendenza, il "Soup Kitchen" di Terence Conran. La sua compagna di lavoro è una certa Celia Birtwell che diventerà in seguito una stilista di successo e verrà ritratta in un celebre dipinto di David Hockney.

 

Incontra l'attore Clive Goodwin (per la cronaca Goodwin fu il proprietario della prima Mini Morris prodotta nel Regno Unito). Appena dieci giorni dopo lo sposa (di nascosto dai suoi genitori). Si usava così nella frenetica Londra di allora: il colpo di fulmina andava di moda (anche se magari rimaneva un po' clandestino). Sono molto felici. Rimane subito incinta.

 

 

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La tragedia però, malignamente, è in agguato: le viene diagnosticata una grave leucemia. Decide di rinunciare alle cure e di partorire (la radioterapia avrebbe irrimediabilmente danneggiato il feto). Muore poco dopo la nascita della figlia Katy (chiamata "Boty") nel 1966.

 

Nessuno a quei tempi cerca di strumentalizzare politicamente la sua scelta fatale: sono semplicemente affari suoi. Il marito manca poco dopo, senza che le promesse della sua carriera possano maturare. Anche la figlia purtroppo morirà a soli 29 anni (un anno più della madre) per overdose. Della fantastica avventura di Pauline Boty non rimase quasi più niente. Anche i suoi quadri finirono quasi tutti dimenticati nella soffitta di casa dei suoi genitori.

 

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Nostalgie a parte, i suoi erano anni in cui tutto sembrava davvero possibile (o almeno messo in discussione). Oggi la sua figura è oggetto di un rinnovato interesse, soprattutto alla luce del suo ruolo di donna-artista. Il femminismo radicale è sempre alla ricerca di esempi/martiri e lei sembra essere perfetta. Anche il suo aspetto, in questo momento, appare quello giusto: oscillante tra la Margot Robbie di Barbie e la Scarlett Johansson di Asteroid City, con in più il ricordo corroborante di una giovane e sorridente Brigitte Bardot.

 

Le opere di Pauline sono state pure riscoperte con entusiasmo (in verità già nel 1993 il Barbican inserì alcune sue opere nella mostra "The Sixties Art Scene"). Un suo quadro, "The Only Blonde in the World" è esposto nel recente ri-arrangiamento della Tate Modern e alla National Portrait Gallery si può ammirarne l'autoritratto realizzato in vetro (gli anni del Royal College). Si parla di una imminente importante retrospettiva. Nel frattempo anche l'ineffabile mercato dell'Arte si esprime: un suo quadro "With Love to Jean-Paul Belmondo" (1962), valutato da Sotheby intorno alle 800.000 Sterline, è andato venduto a più di un milione.

 

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