DA“PERSEPOLI” ALLE VEDUTE DI ROMA, LUCA PIGNATELLI IN MOSTRA – A VENEZIA E CARRARA DUE RETROSPETTIVE ESPLORANO LE OPERE DELL’ARTISTA CENSURATO AL “TEFAF” DI MAASTRICHT – PERCHE’ HANNO FRAINTESO COLORO CHE HANNO LETTO L’ACCOSTAMENTO DI PERSEPOLI COME BLASFEMO VERSO L’ISLAM

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Arturo Carlo Quintavalle per La Lettura - Il Corriere della Sera

 

LUCA PIGNATELLI LUCA PIGNATELLI

Venezia, La Fenice. Carrara, Palazzo Cucchiari. Cominciamo da Venezia: unire un tappeto persiano (374x254 centimetri) e una testa classica (Vienna, Albertina), e intitolarlo Persepoli: che tipo di operazione è mai questa?

 

A confronto ecco un altro pezzo ancora più grande (317x453 centimetri), intitolato Lotta: alla base un arazzo occidentale, forse piemontese del ’700, sopra la ambigua lotta fra un ermafrodito, ma con la testa di Afrodite, e un satiro (Dresda), bianche spoglie di pezzi antichi, infine una griglia di strisce adesive dalle quali escono frammenti di membra.

 

Che cosa vuole dirci Luca Pignatelli? Naturalmente hanno frainteso coloro che hanno letto l’accostamento di Persepoli come blasfemo verso l’islam (l’opera è stata rimossa alla recente fiera di Maastricht perché «attraverso l’arte contemporanea distrugge un’opera antica»): il supporto è un frammento di memoria, un resto di quelli che Luca scopre girando mezzo mondo, oggetti, strati di storia respinti, rifiutati.

 

E sono anche tessuti consunti — il secondo, quello di Lotta, certo occidentale — dunque immagini che si stratificano sopra immagini. Pignatelli di tappeti orientali con inseriti sopra dei volti ne ha composti molti, e sempre il volto, un pezzo antico, si viene come sfaldando, frammentando, scomponendo nel disegno del supporto. Certo, lo stimolo per unire i due testi, supporto e volto, nasce dall’idea di fornire una improbabile cornice ai volti delle statue antiche.

 

LUCA PIGNATELLI LUCA PIGNATELLI

Lo stesso vale per Lotta che Pignatelli ha scelto di montare su un arazzo del ’700. La scelta va compresa nella sua stratificata complessità: Pignatelli usa supporti che sono «oggetti trovati», legni e metalli, resti di un mondo che si consuma sotto i nostri occhi e che per lui vogliono dire memoria, quella di un preciso momento della storia della nostra pittura: l’Informale. Su queste «basi», attentamente scelte e rilavorate, l’artista inventa delle immagini: le ricava da libri sull’arte antica, vecchi cataloghi dei musei di Vienna e Berlino, di Londra e Roma, foto in bianco e nero che, dilatate e poi riportate e dipinte sul supporto, diventano figure sospese fuori del tempo.

 

E ogni volta, sull’immagine, l’artista opera ulteriori interventi, sfrutta la materia corrosa sottostante per modificare le figure o magari, come in un Magritte riletto attraverso Buñuel, riscoprire un satiro col volto di Afrodite. Insomma, lo spazio dell’immagine è bloccato, senza tempo, come nella pittura Metafisica che Pignatelli rilegge con sottile sensibilità.

 

Persino il dialogo, a Venezia, fra Persepoli e Lotta, è fuori del tempo, come del resto lo è l’accostarsi dei diversi supporti, sottilmente manomessi, così che la testa di Persepoli che quasi scompare, affonda nel tessuto del tappeto mentre Lotta, tagliata da violente sbarre bianche, suggerisce violenza, prigione dunque, per il satiro e l’ermafrodito. La chiave per comprendere queste opere veneziane sta forse altrove, nella mostra, altrettanto intrigante, di Palazzo Cucchiari a Carrara. Dove vediamo una impressionante sequenza di pezzi su lamiera metallica intitolati Roma (2016).

 

I supporti sono lamiere recuperate fortunosamente, le loro saldature articolano gli spazi: ecco dunque bruciature da fiamma ossidrica, superfici incerte, apparentemente lisce ma in realtà con lievi avvalli, sporgenze. Tutto ci parla qui di Alberto Burri, ma riletto attraverso Robert Rauschenberg, eppure quello che su queste superfici è accaduto, e che trasforma il supporto, è nuovo e importante.

 

LUCA PIGNATELLI LUCA PIGNATELLI

Luca propone, reinventa immagini incredibili, enormi, del Foro romano, come delle incisioni piranesiane sotto cieli nubilosi, frammentati di luci. Sono «vedute» di qualità molto alta dove leggi le lamine, le giunture saldate, che stanno sotto una enorme cimasa «informale», griglie scompaginate, appena sconnesse, ma rigorosamente disegnate, progettate per fare cantare, col loro vuoto spazio timbrico, le sottostanti vedute di un Foro romano. Un foro sognato, come poteva essere 4 o 500 anni fa.

 

Pignatelli su quelle lastre — che possiamo leggere anche come «tirature», «stati» diversi di stampe, come quelle di Rembrandt — lavora col fuoco e l’acido il metallo, crea qualche escrescenza, abbassa qualche tono, accentua un contrasto, scava il metallo in giornate di lavoro. Opere dunque come apparizioni, memorie di un passato, anzi di tanti, sovrapposti, intersecati passati che si trasformano a contatto coi linguaggi del presente. Torniamo ora alle griglie, al terzo strato, chiamiamolo così, di Lotta: chi guarda deve cogliere il senso di una struttura, deve cogliere l’articolazione geometrica, deve capire che quella scansione ritmica ha una storia.

 

Ma quale? Le saldature dei metalli nella splendida serie Roma danno ordine alle immagini, danno loro una architettura, una ritagliata geometria: sono loro, le saldature e la loro struttura, a segnare lo spazio, a costruire una dimensione architettonica del mondo dove si organizzano forme, figure o paesaggi. Insomma, Luca Pignatelli vive le ricerche delle avanguardie: determinanti, per lui, il Costruttivismo di Kazimir Malevic e l’astrazione di Piet Mondrian. Niente male per un supposto evocatore dell’antico.

LUCA PIGNATELLI LUCA PIGNATELLI

 

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