A ROMA NON SI BUDDHA NIENTE! - ALLA MOSTRA SUI “CAPOLAVORI DELLA SCULTURA BUDDHISTA GIAPPONESE” SI ASSISTE AL MIRACOLO DELLA MATERIA CHE SI SPIRITUALIZZA E SI FA BELLEZZA - SCAPICOLLATEVI ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE: LA MERAVIGLIOSA ESPOSIZIONE DURA LA MISERIA DEL MESE DI AGOSTO - SUSHI-PARTY CON BERNABE', MELANDRI, CASINI, ELISABETTA BELLONI...

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1. IL SORRISO DEL BUDDHA

Franco Marcoaldi per “la Repubblica” - Foto di Yuki Seli

 

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Se conoscere è sempre, in qualche modo, ri-conoscere, il visitatore curioso e appassionato ma privo delle coordinate necessarie per affrontare il labirinto politico-culturale ed artistico-religioso giapponese lungo una storia ultramillenaria, rimarrà felicemente smarrito visitando la mostra alle Scuderie del Quirinale sui “Capolavori della scultura buddhista giapponese”.

 

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Non a caso il tema dello straniamento è al centro degli scritti sia di Francesco Lizzani che di Claudio Strinati presenti in catalogo. Il primo ci rammenta come nell’arte sino-giapponese la «forma non sublima la materia» ma è piuttosto «energia che si fa forma e materia» – offrendoci peraltro anche possibili e fascinosi parallelismi tra alcune sculture di questa tradizione e il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca o la tarda Maddalena lignea di Donatello.

 

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Il secondo ci invita senza esitazioni a un abbandono immediato e spontaneo alla visione, assicurandoci che indipendentemente dalle poche o tante cognizioni culturali sul buddhismo statuario giapponese, l’incontro con la bellezza assoluta è comunque assicurato.

 

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Entrambi hanno ragione. Certo, non guasterà sapere almeno che il buddhismo arriva in Giappone dalla Cina e dalla Corea attorno al VI secolo, fondendosi progressivamente, grazie alla sua conclamata elasticità, con il non meno elastico shintoismo autoctono. Così come sarà bene sapere che l’intervallo storico ricoperto dalla mostra va dal VII al XIII secolo (quindi dal periodo Asuka al periodo Kamakura) e che gran parte delle sculture sono lignee, quindi scolpite nel materiale che meglio di altri incarna uno dei pilastri della cultura buddhista: la costitutiva impermanenza delle cose.

 

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Dopodiché, però, deve prevalere l’esperienza: pura e semplice. E l’immaginazione può e deve cominciare a galoppare, beandosi delle meraviglie che i nostri occhi incroceranno guardando statue per la prima volta esposte in Italia, e di fatto sconosciute nell’intero Occidente, anche per via del loro “insediamento templare” nella nazione d’origine. I funzionari, i monaci e i guerrieri che si succedono, improntati per lo più al massimo realismo, ci offrono un vero e proprio teatro delle passioni umane, quanto mai ampio e variegato.

 

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I loro volti sono via via irosi, corrucciati, miti, pensosi, severi, beffardi. Finché non entrano in scena divinità e bodhisattva (ovvero quanti cercano l’illuminazione) e allora sì precipitiamo nel pieno dell’enigma buddhista – in virtù di quella impenetrabile serenità compassionevole, di quei sorrisi ieratici e metafisici, che tanto affascinano chi abbia avvicinato anche solo di sfuggita il pensiero del Buddha.

 

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Adesso l’aspetto culturale riprende decisamente il sopravvento. E, volendo, ci si può pure costruire un itinerario personale, magari andando in cerca di alcune parole chiave del vocabolario buddhista, qui restituite con inarrivabile potenza plastica. Si comincia con il concetto di “vuoto” (stellarmente distante dall’occidentale “nulla”) di cui dà conto Vimalakirti Nirdesa, uno dei discepoli di Sakyamuni, celebre per la sua eloquenza, qui raffigurato seduto in una spettacolare statua di legno dipinto dell’VIII secolo. A chi lo incalzava con domande continue sull’idea di vuoto, Vimalakirti ripose con un silenzio assoluto, definitivo – perfettamente restituito dalla ferma postura del corpo e da uno sguardo perentorio.

 

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La seconda statua del nostro personale itinerario, invece, è Kannon a undici teste, risalente all’VIII secolo, una delle prime immagini del buddhismo esoterico. Ricavata da un unico blocco di legno di sandalo, presenta una figura in piedi, drappeggiata, con dieci piccole teste sopra a quella principale, che ci invita a riflettere sulla peculiare idea buddhista di identità.

 

In quella tradizione è impensabile l’Io per come noi lo conosciamo. Il Buddha attacca frontalmente tale concetto, su cui l’Occidente ha edificato gran parte delle sue fortune e delle sue disgrazie, spogliandolo della sua corazza e svelandone le reali fattezze di aggregato passeggero, di fascio di pensieri privi di natura propria. Tanto da far dire a Lafcadio Hearn: «Io un individuo? Un’anima individuale? No, io sono un popolo».

 

Appunto: non una, ma almeno undici teste per un solo corpo. C’è infine una terza statua che si collega strettamente alla seconda in questo immaginoso tragitto. È dell’XI secolo e raffigura un Bodhisattva su nuvola. La tonsura, l’abito da monaco, il drappeggio quanto mai mosso e la nuvola sottostante, rappresentano altrettanti fattori di dinamismo, ma anche di un’ipotetica svaporazione dell’Io verso un possibile “nirvana” – fine di ogni attaccamento.

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Mere fantasie? Ipertrofie interpretative a fronte di statue che vorrebbero farsi ammirare solo per la loro stupefacente bellezza? Probabilmente sì. Ma come si è detto in precedenza questa mostra spinge naturalmente all’esercizio dell’immaginazione, nel tentativo di trattenere in un’unica esperienza l’aspetto estetico, mentale e spirituale offerto dalla visione di sculture che rimarranno a lungo nei nostri occhi e nel nostro cuore.

 

QUELLE STATUE SACRE DOVE LA BELLEZZA È DIMORA DEL DIVINO

Stefania Parmeggiani per “la Repubblica”

 

franco bernabe e innocenzo cipolletta franco bernabe e innocenzo cipolletta

Dall’uso del legno alla recitazione dei mantra, il curatore Takeo Oku spiega come nasce un capolavoro. «Non riesco a immaginare le emozioni degli osservatori occidentali di fronte ai capolavori della scultura buddhista giapponese, ma sono certo che ne rimarranno affascinati. Anche chi non avesse gli strumenti per comprendere la manifestazione di fede insita in ogni statua potrà giudicarle con criteri estetici. L’arte è un linguaggio universale».

inaugurazione della mostra sulle sculture buddhiste 10 inaugurazione della mostra sulle sculture buddhiste 10

 

fabiana giacomotti e dago fabiana giacomotti e dago

Takeo Oku, curatore della mostra alle Scuderie del Quirinale, si muove tra le figure espressioniste del periodo Asuka (VII-VIII secolo) e la scultura realistica e vigorosa dell’epoca Kamakura (1185 -1333): «Da quando il buddhismo arrivò in Giappone dall’India, nel VI secolo attraverso Cina e Corea, ogni epoca, ininterrottamente, ha realizzato statue destinate al culto. Il governo ne ha classificate 2626 come tesoro nazionale o importante proprietà culturale. In Italia ne abbiamo portate 21».

 

Quali criteri hanno guidato la scelta?

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«Abbiamo preferito sculture che esprimono scuole di buddhismo e insegnamenti differenti per rappresentare la storia, la cultura e la spiritualità del Giappone. Nello stesso tempo abbiamo limitato la presenza delle opere più esoteriche, maggiormente influenzate dalla cultura indiana, per evitare che i visitatori fossero distratti dagli aspetti mostruosi e grotteschi».

 

Le sculture sembrano muoversi tra i poli opposti dell’astrazione e del realismo. Quali sono le caratteristiche del bello in Giappone?

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«Il canone del bello si incardina su alcuni concetti come l’essenzialità delle forme, la ricerca della spiritualità e il legame con la natura che non deve mai essere di sopraffazione, ma sempre di convivenza. Nasce da un sentimento religioso che ha visto il buddhismo diffondersi in un paese shintoista senza che mai le due religioni entrassero in conflitto ».

 

Perchè la maggioranza delle opere è realizzata in legno?

silvia ferino e rossella menegazzo silvia ferino e rossella menegazzo

«Fino all’VIII secolo si ricorre anche ad altri materiali come il bronzo, la lacca secca e l’argilla, ma nel IX il legno diventa l’unico materiale o quasi. La sua lavorazione è la tecnica suprema, permette di evocare stati di consapevolezza e sentimenti diversi come la meditazione, l’azione, la quiete, l’ira, la paura… Ma è anche la materia preferita per motivi devozionali: si crede che ogni elemento della natura, animato o inanimato, sia dimora della divinità. E infatti la realizzazione delle statue sacre avviene nel rispetto rigoroso dei precetti religiosi».

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Quali?

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«C’erano indicazioni dettagliate sul modo di ottenere il legno, sulla recitazione dei mantra durante la lavorazione, sulle cerimonie di consacrazione… La parola chiave è purezza: gli scultori dovevano rispettare la ritualità della creazione».

 

Con la vittoria del potere militare sulla corte, in epoca Kamakura, si affermò una scultura più realista. Perché?

«Il realismo caratterizzò tutte le arti figurative di questo periodo, non solo la scultura. Era la conseguenza di un nuovo atteggiamento mentale, del confronto diretto con la realtà e della percezione dell’aldilà come un mondo separato. L’umanizzazione delle sculture non deriva dall’idea che la divinità sia simile agli esseri umani ma è lo strumento che permette di percepire la presenza del sacro nella realtà immanente».

 

L’atteggiamento estetico è sempre un atteggiamento religioso?

«La bellezza si spiritualizza, ma questo non è un concetto estraneo all’arte occidentale. Anzi, pur riconoscendo le differenze culturali tra Oriente e Occidente, possiamo dire che le statue buddhiste in mostra condividono un canone di bellezza universale ».

 

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