L’ARTE DI ANGOSCIARSI – LA RICERCA ARTISTICA, CUPA E PESSIMISTICA DEL SECONDO DOPOGUERRA, NELLA MOSTRA “POSTWAR MODERN” AL BARBICAN DI LONDRA. RIELLO: “I RICORDI DELLA GUERRA APPENA FINITA E LE PAURE DI QUELLA NUOVA (SEGNATA DAL TERRORE DEL NUCLEARE) AFFIORAVANO NELLA RICERCA ARTISTICA. SI PARTE DA GIOVANI DI BELLE SPERANZE CHE AVREBBERO FATTO MOLTA FORTUNA. LUCIAN FREUD, NON ANCORA COMPLETAMENTE MATERICO E CARNALE, È GIÀ SULLA SUA STRADA. FRANCIS BACON È PIÙ DRAMMATICO NELLA SERIE “MAN IN BLUE”…”

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Antonio Riello per Dagospia

 

 

postwar modern souza postwar modern souza

Malgrado la trionfale vittoria sul nazismo, l'immediato dopoguerra non fu un periodo felice per il Regno Unito. Il razionamento del cibo (in atto fino al 1954 per le carni), le tante macerie della guerra (in particolare nella capitale), il disfacimento dell'Impero (saggiamente abbastanza pacifico, almeno rispetto a quanto accadde alla Francia) e un'economia con gravi problemi strutturali (destinati a trascinarsi a lungo) causavano ai sudditi britannici una vita che potrebbe essere definita, senza esagerare, come "austera". Nel decennio successivo (1955-65) le cose iniziarono lentamente a migliorare e si assistette ad un tonico risveglio comprovato soprattutto da fenomeni epocali legati alla musica ("Beatlesmania" e dintorni) e alla moda.

 

 

Cosa succedeva nelle Arti Visive in quei vent'anni, assieme difficili ed eroici? Una mostra, curata da Jane Alison, che ha aperto da pochi giorni al Barbican (con 48 artisti e circa 200 opere) ce ne offre uno spaccato esaustivo. Il set di questa storia è Londra, una città allora decisamente grigia e assediata da uno smog tremendo.

I ricordi della guerra appena finita e le paure di quella nuova ("Fredda" ma segnata dal terrore della bomba nucleare) si mescolavano e affioravano nella ricerca artistica, nell’insieme piuttosto pessimistica e cupa.

 

 

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Si parte da giovani di belle speranze che avrebbero fatto molta fortuna. Lucian Freud, non ancora completamente materico e carnale, è già sulla sua strada. Il suo quadro, “Hotel bedroom” (1954), emana un misterioso senso di colpa; è un ritratto della moglie Caroline Blackwood stesa a letto. Francis Bacon è più esplicitamente drammatico nella serie “Man in Blue” (1954). Lo stile di David Hockney è, in un certo senso, ancora abbastanza acerbo. Lo scultore italo-scozzese Eduardo Paolozzi inizia a lavorare sulla sua personalissima ri-lettura della civiltà tecnologica: ingranaggi e macchinari. Leon Kossoff inizia la sua esplorazione, senza sconti, della vita urbana nella grande metropoli.

 

L’astrattismo è esemplificato da figure come quelle di Mary Martin, Gillian Ayres e soprattutto Victor Pasmore. Pittura astratta certo, ma leggermente differente dalle coeve esperienze continentali. Infatti un senso di “fai da te” domestico si mostra qui e là tra le pennellate: sublime manualità da lavoretto del week-end, ovvero un imprevisto distillato di “Britishness”.

 

 

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Lynn Chadwick assieme a Barbara Hepworth e Henry Moore rappresenta la Sacra Trinità della scultura Britannica. Le enigmatiche figure metalliche di Chadwick, sedute o in piedi, rimangono assolutamente emblematiche di un’epoca più attenta ai tormenti dell’anima che ai piaceri del corpo. David Medalla presenta invece una scultura cinetica fatta di sabbia.

In mostra anche i lavori di Jean Cooke e John Bratby, moglie e marito. Nel loro lavoro riflettono, con un’amara ironia, le tensioni e gli scazzi di coppia. Non manca un ritratto (per fortuna di lui) con un bell’occhio nero.

 

Si possono tra l’altro ammirare le radici squisitamente Britanniche della Pop Art: Richard Hamilton con le sue sinuose figure.

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Alcuni talenti particolarmente interessanti arrivano in quegli anni a Londra dopo essere fuggiti dalle persecuzioni naziste: Frank Auerbach, Magda Cordell (notevole il suo “Neither dead nor yet quite alive” del 1958) e Franciszka Themerson. E’ questo anche il destino di Gustav Metzger, funambolico e acuto personaggio che gravita nell’orbita di Fluxus. Saprà portare alle estreme conseguenze l’Arte Concettuale arrivando a concepire come “Opera d’Arte” la distruzione dei manufatti da lui stesso creati. Si può vedere un filmato nel quale, con l’acido solforico, fa a pezzi delle tele dipinte.

 

 

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Non mancano gli artisti che nello sfascio post-coloniale decidono di lasciare i paesi di origine per trasferirsi in Inghilterra. Francis Newton Souza, Frank Bowling, Aubrey Williams, Avinash Chandra sono solo alcuni nomi. Souza ha in mostra un bellissimo “The agony of Christ” (1958) che ben illustra l’atmosfera caratterizza lo stile “brutalista” in architettura: ricostruire dalle rovine trasformando la funzione in estetica dello sforzo.

Con Postwar Modern è possibile scoprire nomi che, per varie ragioni, sono stati in qualche modo ingiustamente dimenticati. Shirley Baker and Berth Hardy con le loro spietate ma empatiche fotografie, vere e proprie testimonianze socio-urbane, ne sono un ottimo esempio. Anche lo scultore Peter King è una bella sorpresa, notevole il lavoro “Head of Woman” (1957).

 

L’idea di coinvolgere nel progetto come “Associate Artist” un artista dei nostri giorni, Abbas Zahedi, potrebbe essere stimolante, almeno da un punto di vista teorico. Ma non ha dato grandi frutti pratici, non aggiunge nulla alle opere fatte 70 anni fa. Sembra piuttosto una di quelle classiche (e spesso deboli) trovate delle istituzioni culturali Britanniche di essere oggi, a tutti i costi, “inclusive”.

 

 

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Una nota a margine. Naturalmente l’imponente mostra è stata pianificata almeno tre anni fa ed è completamente staccata dalla cronaca di queste settimane ma il pesante grado di angoscia collettiva che emana da tanti lavori in mostra è adesso particolarmente inquietante. La paura della guerra atomica e il senso di frustrante e incombente austerità sembrano quasi gli stessi.

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