Aurelio Magistà per la Repubblica
Racconterà il Radical Design agli americani. Ma prima forse dovrebbe spiegarlo agli italiani. Perché, con l' eccezione di qualche appassionato di design e degli addetti ai lavori, pochi sanno che molte creazioni celeberrime, che fanno ormai parte della nostra enciclopedia visiva, nascono proprio da quel movimento.
Maria Cristina Didero, curatrice della mostra "SuperDesign", che apre a New York il 7 novembre, si mette a ridere. «È vero. Tanto più che alcuni, per esempio Ugo La Pietra, negano al design radicale la dignità di movimento».
«Comunque, verso la metà degli anni Sessanta diversi architetti sparsi in Italia si ritrovarono a condividere una comune sensibilità verso quello che succedeva da noi e nel mondo, e un comune desiderio di rompere con il passato per creare un nuovo linguaggio espressivo e scrivere pagine nuove.
Epicentro di queste scosse erano le facoltà di Architettura, in particolare Torino e Firenze». E proprio a Firenze, a palazzo Strozzi, in questi giorni è in corso un' altra mostra, "Utopie radicali. Oltre l' architettura", che approfondisce i risvolti fiorentini del movimento.
Ma agli americani, invece, che cosa racconterà di questa specie di Sessantotto del design?
«Devo partire dal 2012, quando è uscito un libro fotografico sul Radical Design di Maurizio Cattelan con illustrazioni di Alessandro Mendini e un mio testo.
Il libro ha avuto un grande successo negli Stati Uniti e da allora questo movimento è entrato prepotentemente nell' orizzonte degli appassionati, suscitando la voglia di saperne di più».
Un interesse che ha radici profonde: nella memoria di New York c' è la celebre mostra del 1972 "Italy: the New Domestic Landscape", che aveva rivelato al mondo il design italiano presentando anche diverse opere di creativi "radicali".
«Agli americani il movimento va spiegato nella sua capacità di andare oltre la forma consueta degli oggetti, nella forza di parlare il linguaggio delle emozioni, anche creando uno scollamento fra forma e funzione e lavorando con dimensioni fuori scala.
UTOPIE RADICALI A PALAZZO STROZZI
Guardando il gigantesco rettangolo d' erba sintetica del Pratone, per esempio, tutto verrebbe da pensare meno che a una seduta: il progettista rinuncia a sfidare la natura e invece ci gioca, anche se magari ci gioca contro.
Un altro aspetto chiave è il gusto iconoclasta: Capitello, per esempio, irride alla classicità antica. E il divano componibile Leonardo, di Franco e Nanà Audrito per Studio65, è rivestito con la bandiera americana per dissacrarla sedendosi sopra».
Dal 1965 al 1975. Questo l' orizzonte temporale della mostra.
«Abbiamo individuato come pietra miliare conclusiva, che segna lo sgretolamento del movimento, l' anno in cui chiude Global Tools, la scuola sperimentale animata da Sottsass, Mendini e altri autori».
COPERTINA DEL LIBRO ITALY THE NEW DOMESTIC LANDSCAPE
È curioso che una mostra così non sia in un museo ma in una galleria, per quanto prestigiosa come la R&Company.
«La ragione è semplice: loro ce l' hanno chiesto. I musei no. Anche se pensiamo che questa mostra potrà girare anche in qualche museo».
I problemi di spazio sono stati un' ulteriore sfida sfida per selezionare che cosa esporre.
«I due proprietari della galleria hanno collezionato davvero tanti pezzi, ma per scegliere sono partita da due considerazioni.
Prima di tutto, il punto di partenza dei tanti che hanno dato vita al Radical Design era comune, ma i percorsi e i linguaggi sono stati eterogenei. Una grande ricchezza che oggi rende più difficile ripercorrere quel tempo, se non attraverso scelte molto nette, rinunciando a ogni possibilità di essere esaustivi.
E io ho deciso che agli americani era meglio parlare usando gli oggetti simbolo dell' epoca, appunto Pratone, il divano Bocca, Guantone e le opere nate dalla voglia di riscrivere il mondo attraverso i grandi valori della civiltà come la democrazia, la libertà, la liberazione della donna.
La seconda considerazione è che noi, e mi riferisco anche a Francesca Molteni, regista del film che insieme al libro edito da Monacelli fa un tutt' uno con la mostra, siamo partite dalla viva voce e dai ricordi di chi quell' epoca l' ha fatta.
Tutto è nato dalle loro parole e dalla loro memoria. Mi ha detto Cristina Morozzi, che quel periodo l' ha attraversato con il marito Massimo Morozzi: "Il Radical Design era un modo di vivere". Appassionato, impegnato, utopico e per questo anche litigioso». Un litigio che, in fondo, continua fra i sempre meno numerosi superstiti. Ma più che arrabbiarsi davvero, sembrano divertirsi moltissimo.
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