IL “PARADISO FISCALE” IRLANDA SE LA PRENDE IN QUEL POSTO - L’EUROPA IMPONE NUOVE REGOLE FISCALI AI COLOSSI HI-TECH, DA GOOGLE A FACEBOOK, CHE NEL 2012 HANNO PAGATO IN GRAN BRETAGNA 154 MILIONI DI STERLINE DI IMPOSTE A FRONTE DI 15 MILIARDI DI DOLLARI DI RICAVI

Quando i nuovi sistemi saranno tradotti in legislazioni nazionali, non sarà più possibile accumulare liquidità in una filiale in un Paese con tassazione ridotta sulle riserve di capitale, né “vendere” con una transazione interna un marchio, un brevetto, elaborato da una filiale in un Paese avanzato a un’altra filiale che ha sede in stati con forti sgravi…

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Giuseppe Bottero per "La Stampa"

 

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Un piano in sette punti per regolare il sistema fiscale internazionale, che in troppi casi è stato «dribblato» dalle grandi multinazionali dell’hi-tech. L’Ocse pubblica le raccomandazioni del progetto di azione stilato su mandato del G20, un insieme di norme che saranno un elemento chiave del vertice che si terrà in Australia il 20 e 21 settembre.

 

Si tratta, dice il segretario generale dell’organizzazione parigina Angel Gurria, di un «pacchetto storico», che affronta temi delicati come la fiscalità per l’economia digitale, il monitoraggio «Paese per Paese» di attività e profitti delle multinazionali, il contrasto dei «trasferimenti fittizi di beni immateriali» e dello sfruttamento indebito dei trattati e degli strumenti ibridi per sfuggire alle imposizioni.

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«Siamo a metà strada. Stiamo presentando sette punti, ne presenteremo altri otto nel 2015. Ma stiamo avanzando. Alcuni avevano dubbi, ma è così», spiega il direttore della divisione Politiche e amministrazione fiscale dell’Ocse, Pascal Saint-Amans, assicurando che «ciò che si è deciso avrà un impatto immediato», perché «le imprese si trovano di fronte alla cruda realtà, e dovranno anticiparla e adattarsi».

 

Non sarà semplice, anche se dai colossi della tecnologia arrivano aperture importanti: «Da tempo abbiamo espresso il nostro supporto a che i governi rendano il sistema fiscale internazionale più chiaro e più semplice. Naturalmente rispetteremo qualsiasi nuova norma su cui i governi si accordino», fa sapere un portavoce di Google.

 

Nel dettaglio, quando i nuovi sistemi saranno tradotti in legislazioni nazionali, non sarà più possibile accumulare liquidità in una filiale di un gruppo multinazionale situata in un Paese con tassazione ridotta sulle riserve di capitale, né «vendere» con una transazione interna un bene intangibile (per esempio un marchio, un brevetto, un algoritmo web) elaborato da una filiale in un Paese avanzato a un’altra filiale che ha sede in stati con forti sgravi.

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Le amministrazioni fiscali saranno inoltre dotate di sistemi più efficienti per determinare dove un’azienda svolge le sue attività, genera valore e realizza profitti, in modo da poterla costringere a pagare le tasse lì, e non in una giurisdizione più conveniente.

L’Ocse lavora sul pacchetto di regole da tempo, e la stretta non arriva inaspettata.

 

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All’inizio dell’anno il Financial Times ha calcolato che sette colossi hi-tech a stelle strisce, compresi Apple e eBay, hanno pagato 154 milioni di sterline di imposte sui redditi d’impresa nel 2012 in Gran Bretagna a fronte di 15 miliardi di dollari di ricavi. E, in primavera, anche Yahoo ha trasferito in Irlanda le attività europee. Il presidente francese Hollande è da tempo in prima linea nel braccio di ferro con le multinazionali tech: «L’elusione non è accettabile», ha detto prima di un viaggio nella Silicon Valley in cui ha incontrato Eric Schmidt di Google, Jack Dorsey di Twitter e Sheryl Sandberg di Facebook.

 

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Ora, ragiona l’Ocse, è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. «È impossibile - dice Raffaele Russo, l’italiano che ha seguito il piano all’interno dell’organizzazione - che in un contesto in cui ogni tre mesi si aggiorna il software dei telefonini si possa operare in materia fiscale con regole scritte cento anni fa».

 

Trovare la quadra, ragiona, non sarà semplice: tra gli gli snodi tecnicamente più complessi c’è l’assegnazione e la riscossione dell’Iva sulla compravendita transnazionale di servizi e beni intangibili, per cui si rileva «l’assenza di uno standard internazionale» e il conseguente rischio di «perdita di proventi per gli Stati e distorsioni commerciali».

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